È stata oggi annunziata la proposta di Matteo Renzi per il nuovo Senato. L’annuncio è parco di dettagli ma, secondo l’ottima prassi comunicativa del segretario del Pd, indica quanto l’opinione pubblica si aspetta e desidera sentire: il dimezzamento del numero dei senatori e l’azzeramento della loro indennità.
Poco si sa delle funzioni che il nuovo Senato andrebbe a svolgere, se non che esso parteciperebbe all’elezione del presidente della Repubblica (il quale peraltro – e secondo una logica da cortocircuito – avrebbe diritto a nominare 21 dei 150 membri scegliendoli tra rappresentanti della società civile) e che non voterà la fiducia al governo. Niente compare in merito alle funzioni legislative, che potrebbero dunque essere inesistenti, il che sarebbe anche in parte coerente con la scelta relativa alla composizione del nuovo organo; sono previsti infatti 108 sindaci e 21 presidenti di regioni, cosa che comporta uno spostamento pesante della composizione stessa a favore degli esecutivi regionali e locali, che mal si sposa con una parte da protagonista nell’emanazione delle leggi. Al più si può pensare di affidar loro la possibilità di dare un parere non vincolante ai progetti elaborati da parte della Camera politica.
Si tratta – per quel che si vede – di un disegno scarno, quasi scarnificato, al limite dello scheletrico, che lascia una miriade di questioni aperte. Eppure, come al solito, la notizia è su tutti i giornali e fa tirare, forse, un sospiro di sollievo a chi sa (e ormai tutti lo sanno) che il bicameralismo è da riformare e sono 60 anni che se ne parla senza risultato alcuno. La politica del fare è al suo apice: fare qualcosa, purché si faccia, contro gli immobilismi del passato anche recente.
In attesa di dettagli da valutare con più ponderatezza ed, eventualmente, di altri progetti più articolati e pensati, l’annuncio merita pochi commenti. Uno sopra tutti: previlegiare gli esecutivi locali può avere un senso se poi l’esecuzione delle leggi spetta agli esecutivi stessi in modo coerente e organico. Se invece, come accade oggi, le leggi le fa lo Stato e le applicano le burocrazie statali, il nuovo Senato parte già quasi completamente esautorato. Manca, in altre parole, un disegno globale di riforma che parta dal basso, dall’amministrazione, da coronare poi con una Camera espressione di una burocrazia completamente riformata e razionalizzata.
Un altro aspetto problematico è la poca trasparenza quanto alle funzioni; se il nuovo Senato è un organo vuoto di potere e di poteri, con una legittimazione indefinita nei suoi meccanismi attuativi (come scegliere 108 sindaci sugli 8000 comuni italiani?), a composizione mista in cui la componente regionale è largamente minoritaria (quindi praticamente ininfluente) perché non essere davvero radicali e optare per la sua definitiva abolizione?
Organi senza poteri non sono solo inutili: spesso sono dannosi perché avallano l’idea che la politica e le sue istituzioni siano senza un senso, senza una capacità di costruire il bene comune, così screditando le istituzioni nel loro complesso (come se già non bastasse la visione desolante della politica stessa o almeno di alcune sue componenti che le recenti vicende di malcostume o la maleducazione istituzionale sembrano mediare).
Pertanto, mentre sulla legge elettorale esito del compromesso Pd-FI si poteva dire che – almeno – era un tentativo migliorabile, un inizio da cui partire per costruire una alternativa al Porcellum, qui si è di fronte ad una costruzione di ingegneria costituzionale che ha poca sostanza e scarsa capacità di incidere realmente in vista di un cambiamento dell’assetto dei poteri di vertice del nostro Stato. Non resta che attendere o dei chiarimenti sostanziali del pensiero renziano, o qualche altra proposta che abbia contorni un po’ meno indefiniti e una maggiore possibilità di avere quel tanto di consenso che le permetta di affrontare non a cuor leggero l’avventura (ardua) del processo di cambiamento della Costituzione.