Il Consiglio regionale lombardo ha recentemente approvato a larga maggioranza – solo 18 consiglieri dell’opposizione non hanno partecipato al voto – un documento in ordine alle riforme del Senato e del Titolo V della Costituzione repubblicana da inviare al Parlamento di Roma. Si è trattato dell’epilogo di un percorso incominciato il 12 febbraio con l’approvazione di una mozione – per la verità un po’ «debole» – finalizzata a contestare i contenuti del decreto Delrio sulle province e le città metropolitane.
Per una folla di ragioni, in quest’ultimo periodo l’autonomia dell’istituto regionale – inteso quale dimensione istituzionale territoriale intermedia attraverso cui si realizzano la sussidiarietà e la democrazia di prossimità – è sotto attacco. Alla radice dei rigurgiti centralisti che oggi caratterizzano il sistema politico e istituzionale, c’è l’assunto che la riconciliazione nazionale, per uscire dall’incerto epilogo della vicenda storica della seconda Repubblica, non possa che passare dal consolidamento dello Stato burocratico e accentratore, ingordo e predatore, ai danni delle autonomie locali.
Senza dubbio il sistema delle autonomie locali – comuni e province – e le regioni, a causa degli scandali e delle inefficienze, del rigonfiamento a dismisura dei processi burocratici e amministrativi, ci hanno messo del loro per legittimare la tendenza in atto. Ciò non deve tuttavia portare a mettere in discussione un progetto istituzionale, quello del regionalismo e della Repubblica delle autonomie, che conserva ancora una sua profonda ragion d’essere. Al di là degli scandali, questo disegno – che ha una consolidata tradizione storica alle spalle – in taluni casi ha offerto risultati oltremodo positivi, incrementando la qualità della democrazia.
Ecco perché Regione Lombardia ha sentito il dovere di avanzare la propria proposta, in un momento politicamente opportuno come quello del passaggio di testimone tra un governo e l’altro, di fronte alle arrembanti proclamazioni di percorrere risolutamente la strada delle riforme da parte del neonato governo Renzi. Oltretutto, Regione Lombardia può vantare un profittevole rapporto di contratto-scambio – e quindi un forte potere negoziale – con lo Stato centrale in quanto è una regione altamente virtuosa. Lo certificano il residuo fiscale, i costi standard, la quota di Pil che copre (oltre il 20%).
Nulla di velleitario, dunque. Anzi, è più che legittima la volontà lombarda di incidere in profondità nel quadro del processo delle imminenti – in quanto necessarie, ineludibili e non più procrastinabili – riforme costituzionali. Sì, perché quelle semplicemente istituzionali ormai non bastano più.
È pertanto corretta l’idea di archiviare una volta per tutte il bicameralismo perfetto e di creare una Camera delle Autonomie in cui vengano rappresentate e tutelate le istanze e gli interessi territoriali. È pure corretto partire – nel percorso delle riforme – dalla Camera delle Autonomie per mettere poi le mani nel Titolo V della Costituzione, non già viceversa. La Camera delle Autonomie si dovrebbe configurare come un’istituzione di secondo grado, che garantisca la più ampia rappresentanza alle regioni – attraverso l’elezione dei deputati da parte dei Consigli regionali – e, in subordine, al sistema delle autonomie locali. Sarebbe opportuno prevedere una rappresentanza specifica dei comuni, anche per tipologia (piccoli comuni e comuni montani).
La trasformazione del Senato della Repubblica nella Camera delle Autonomie deve tuttavia fare i conti con un istituto giuridico irrevocabile, quello del regionalismo differenziato. Bisogna infatti prendere atto che esistono due tipologie di regioni e a queste occorre riconoscere adeguata rappresentanza. Un metodo potrebbe essere quello di attribuire alle regioni a Statuto speciale una rappresentanza fissa, sul modello americano o svizzero, poiché si tratta di rappresentare la “categoria”. Alle regioni a Statuto ordinario si potrebbe riconoscere una rappresentanza sul modello Bundesrat, proporzionale al numero degli abitanti.
Questo modello – per la verità piuttosto originale – dovrebbe essere adottato con due avvertenze. Anzitutto il numero complessivo dei deputati della Camera delle Autonomie. Proprio l’esperienza istituzionale del Bundesrat è indicativa in quanto la camera di rappresentanza territoriale tedesca “funziona” con una settantina di deputati. In tempi di taglio dei costi della politica si potrebbe allora pensare a un massimo di ottanta deputati. Oltretutto, essendo i deputati espressione dei Consigli regionali, la loro retribuzione sarebbe coperta all’origine; le sole indennità integrative sarebbero da riconoscere solo all’esiguo numero dei sindaci. Si configura così una Camera delle Autonomie molto prossima a un costo zero per le tasche del contribuente.
La seconda considerazione implica i necessari accorpamenti tra regioni che sarebbe opportuno promuovere. Affinchè la Camera delle Autonomie sia un’istituzione funzionale è infatti opportuno che il cleavage tra lo Stato centrale e le istituzioni periferiche si configuri come un rapporto con realtà istituzionali pressoché omogenee. Levate le regioni a Statuto speciale e pure la Lombardia, che con i suoi quasi 10 milioni di abitanti costituisce un’anomalia, è necessario accorpare una parte delle attuali regioni per dare vita a corpi istituzionali omogenei, attorno ai sei milioni di abitanti.
Sotto il profilo dei poteri, la Camera delle Autonomie deve compartecipare alla gestione della sovranità con lo Stato; quindi non dovrebbe esprimere la fiducia al governo, dovrebbe intervenire solo in ordine agli affari di stretta competenza regionale ovvero a quelli relativi al sistema delle autonomie locali ed essere convocata solo quando serve, almeno una volta al mese. Una volta definito il profilo della Camera delle Autonomie sarebbe opportuno mettere mano al Titolo V della Costituzione repubblicana. Con una premessa: quella di costituzionalizzare, nell’articolo 5, la Repubblica delle Autonomie così come si profila almeno a partire dalla riforma del 2001.
Nel merito poi del Titolo V, bisogna semplificare l’accesso alla “geometria variabile” prevista dall’articolo 116 della Costituzione, individuando dei livelli di virtuosità (per esempio: quota del Pil, residuo fiscale, costi standard) al di sopra dei quali il trasferimento delle materie dallo Stato alle Regioni diventa automatico, ferma restando la possibilità dello Stato di ricorrere contro il trasferimento ovvero alle regioni di rinunciare a gestirle, e comunque prevedendo magari un periodo di sperimentazione. Si porrebbe così fine a quell’estenuante negoziato che ha caratterizzato l’applicazione dell’attuale terzo comma dell’articolo 116 della Costituzione; negoziato che, nel corso dell’ultimo decennio, non ha mai portato a risultati concreti per quelle regioni – per esempio la Lombardia – che hanno chiesto allo Stato l’applicazione del regionalismo a “geometria variabile”.
Per quelle regioni che rientrano nei parametri di virtuosità indicati in precedenza, sarebbe opportuno promuovere l’autonomia fiscale nell’ordine almeno del 75% della fiscalità trattenuta sul territorio e la possibilità di istituire le Zone Economiche Speciali. Si tratta del livello minimo di gestione della fiscalità prevista per le regioni a Statuto speciale. In questo modo si eleggono le regioni a Statuto ordinario che sono virtuose verso livelli di “specialità” che ormai non sono più eludibili.
Bisogna porre fine ai conflitti di competenza che hanno ingolfato la Corte costituzionale e il Consiglio di Stato dal 2001 in poi in ordine alle competenze concorrenti previste dall’articolo 117, ma anche alle clausole trasversali, che coinvolgono sia le competenze concorrenti, sia le competenze residuali regionali (le materie “innominate”) e che, perciò, hanno indotto taluni a ipotizzare l’adozione di una sorta di clausola di supremazia, senza dimenticare le materie economiche e sociali che coinvolgono tutti i livelli istituzionali (Stato, Regioni, Enti locali). Per sanare i conflitti sarebbe opportuno trasferire la più larga parte delle materie concorrenti del 117 nel terzo comma dell’articolo 116.
L’articolo 114 della Costituzione, quello che individua gli elementi costitutivi della Repubblica (Comuni, Province, Città metropolitane, Regioni e Stato) definisce la complessità di una democrazia multilivello, che impedisce l’adozione di criteri rigidi, in particolare in ordine al riparto delle competenze. E l’idea della “concorrenza” allude al conflitto, non già alla collaborazione tra i diversi livelli di governo. L’eliminazione delle materie concorrenti costituisce allora la premessa per la suddivisione delle competenze in base alle funzioni, con il deliberato obiettivo di costruire davvero la multilevel governance, cioè la democrazia multilivello prevista dall’articolo 114.
Infine, sarebbe opportuno costituzionalizzare – nell’articolo 131? – le intese fra regioni, cioè le macroregioni, per rendere oggettivamente concreta la prospettiva strategica macroregionale in armonia con gli orientamenti dell’Ue. Le intese fra regioni si configurano infatti come lo strumento privilegiato per razionalizzare le politiche pubbliche delle regioni, alimentano la prospettiva macroregionale e la formalizzano giuridicamente in senso funzionale, non già istituzionale, poiché individuano concretamente l’area territoriale per l’esercizio di talune specifiche competenze. E l’ottimizzazione dimensionale dell’ente territoriale che esercita una specifica funzione amministrativa è fondamentale per il perseguimento degli obiettivi di efficienza, efficacia ed economicità dell’azione di governo.
Volgendo gli occhi all’indietro, il grande Tocqueville individuava nel rapporto diretto e non mediato tra lo Stato e il citoyen, attraverso la Déclaration del 26 agosto 1789, uno degli elementi degenerativi che aveva portato alla democrazia “totalitaria” propria almeno della seconda parte della Grande Rivoluzione. Questo per dire che un rapporto fra il cittadino e lo Stato mediato dall’ente intermedio indubbiamente aumenta la qualità dell’istituto democratico. Le agguerrite e ingenerose aggressioni che, da più parti, anche in questi giorni, si levano per auspicare una revoca del regionalismo e di quel minimo di decentramento amministrativo che è stato introdotto nel Paese negli ultimi decenni sono inaccettabili e da respingere con forza. Perchè il regionalismo e la Repubblica delle autonomie conservano ancora una loro profonda ragion d’essere dal punto di vista politico e istituzionale contro uno Stato burocratico e accentratore che è ormai fallito.