In tanti, da tempo, sosteniamo la necessità di superare il bicameralismo perfetto e riformare il Titolo V. Ma se lo strumento è il disegno di legge presentato mercoledì in Consiglio dei Ministri, il rischio di passare dalla padella alla brace è alto. Modificare la Costituzione non è come scrivere un regolamento di condominio. La Costituzione è la madre di tutte le leggi e tutto lo sviluppo dell’ordinamento ne dipende: il più piccolo errore diventa la palla di neve che genera una valanga. La riforma del Titolo V del 2001 lo ha dimostrato. Il testo presentato di queste palle di neve ne scatena numerose. La nuova Assemblea delle autonomie è composta da tre membri regionali – il governatore e due eletti dai consiglieri – e da tre sindaci eletti in ciascuna regione, nonché da ventuno cittadini (con i requisiti per i senatori a vita) nominati dal Presidente della Repubblica.



Il primo grave difetto è che non c’è rapporto tra la popolazione della regione e il numero dei senatori: il Molise (313.660 abitanti) o la valle d’Aosta (126.978 ab.) avranno gli stessi rappresentanti della Lombardia (9.759.209 ab.). Inoltre, siccome la materia regionale è molto tecnica viene da chiedersi che senso abbiano, in quel contesto, i Renzo Piano o i Rubbia (i ventuno della società civile). Riguardo alle funzioni, infine, l’impianto appare schizofrenico: l’assemblea delle autonomie non dà la fiducia, può solo chiedere il riesame delle leggi, ma partecipa a pieno titolo alla revisione della Costituzione. Non ci sono quindi leggi bicamerali (invece utili nelle materie connesse agli ordinamenti regionali o comunali); tuttavia le leggi costituzionali sono di competenza di entrambe le Camere. In sostanza: non ci si fida a prevedere leggi bicamerali (perché manca il rapporto fiduciario col Governo) ma l’Assemblea delle autonomie sulla materia più importante e politica che esista, quella costituzionale, ha lo stesso potere della Camera dei deputati.



Le incongruenze non mancano neppure nella parte sul Titolo V. Si ricentralizzano diverse materie (si riprende quasi alla lettera, su questo punto, l’art.117 del ddl costituzionale Quagliariello) e si elimina la competenza concorrente, assegnando alle regioni la competenza residuale in tutte le altre materie. Ma tutte le altri parti del ddl Quagliariello, che riproponevano gran parte delle proposte della Commissione degli Esperti, vengono epurate e così il sistema non funziona. Si ricentralizzano, infatti, materie in cui le Regioni hanno poco legiferato e se questo può deflazionare il contenzioso, non si razionalizza minimamente la spesa pubblica decentrata. In particolare l’80% della  spesa delle Regioni è sulla sanità. Tuttavia il ddl Boschi non prevede, a differenza del ddl Quagliariello, la costituzionalizzazione dei costi standard. Neppure prevede il divieto, in caso di gravi dissesti della sanità, di nominare commissario il presidente della Regione (i vari Bassolino possano continuare a scassare i conti).



Infine sulla spesa dei Comuni non si fa nulla, non solo perché si ignorano i fabbisogni standard, ma perché nemmeno si ripropone il divieto di istituire società partecipate quando il mercato può assicurare, meglio o allo stesso modo, i servizi.

Neppure ci preoccupa di imporre la soppressione, oltre alle Province, di tutti gli altri enti intermedi inutili. Soprattutto non viene prevista una norma transitoria utile a evitare che, a seguito della eliminazione della competenza concorrente, la potestà legislativa regionale possa liberamente espandersi in tutte le materie innominate. Altra schizofrenia: nella materie “tutela della salute”, “casse di risparmio”, “alimentazione” o “ordinamento sportivo” ogni regione acquisisce competenza esclusiva e non è più soggetta ai limiti dei principi fondamentali della legislazione statale. Lo stesso vale per la ex materia concorrente “rapporti internazionali delle Regioni”: il Piemonte, in piena autonomia, potrà stipulare accordi con altri Stati. È vero che lo Stato potrebbe poi riprendersi queste materie con la clausola di supremazia, ma fino alla approvazione della legge statale una regione potrebbe scassare, ad esempio, la disciplina delle casse di risparmio. Lo Stato è quindi ogni volta costretto a inseguire con la clausola di supremazia ogni espansione della legislazione regionale. In conclusione: difficile sperare che questo impianto possa produrre quella semplificazione e quella razionalizzazione della spesa che sarebbe invece necessaria.