Il sistema multipolare ha governato il mondo per tre secoli dopo la pace di Westfalia del 1648, che consolida i nascituri moderni stati centralizzati dominanti. L’emergere del Regno Unito e poi degli Usa dal XVI al XX secolo via via sconvolge l’equilibrio multipolare e lo trasforma nelle due successive ere di dominio unipolare. Quel governo mondiale termina. Ora tutto sta di nuovo cambiando. Ma dalla uni-polarità non si è affatto passati alla multi-polarità, come molti improvvidamente sostengono. Come ha scritto Fedor Lukianov il 15 marzo 2014 su Rossiyskaya Gazeta, «a giudicare da quello che sta avvenendo in Ucraina, si può affermare che la discussione sui principi dell’ordine mondiale è entrata in una nuova fase. Il Segretario di Stato americano John Kerry ha rinfacciato alla Russia di operare “in uno spirito tipico del XIX secolo”, adducendo che le questioni internazionali, oggigiorno, vengono risolte in un modo completamente diverso» .



Il problema è appunto quello di capire di che si trattava quando si risolvevano i problemi nel secolo indicato come dirimente sul piano comparato da John Kerry. Henry Kissinger ci sorregge con la sua straordinaria opera di storico del Congresso di Vienna e di biografo di Taillerand. La necessità di ridisegnare la carta d’Europa dopo l’uragano napoleonico si fece strada assai faticosamente. In definitiva il grande Empereur aveva lasciato dietro di sé la scia di fuoco della rivoluzione del Termidoro francese. I roghi bruciavano ancora. L’Empereur combatteva con i suoi soldati, mentre i monarchi continuavano a risiedere nelle loro regge durante la battaglia, e sradicava vecchi privilegi accendendone di nuovi, certamente ma tutti borghesi nonostante il viluppo monarchico-cesaristico con cui li rivestiva. E provocava la nascita dello spirito nazionale ovunque le sue armate governassero da dominatrici.



In fondo, è la mia convinzione, Putin continua il vortice non della rivoluzione leninista, ma della ricostruzione staliniana dell’orgoglio nazionale russo, più che sovietico. Quell’orgoglio, ch’era, insieme, difesa della rivoluzione proprietaria, che spinse Stalin addirittura ad allearsi tatticamente con Hitler pur di ricostruirlo, quell’onore patriottico, costi quel che costi. Sappiamo, con Karl Polanyi, prima che con i mediocri storici che si sono susseguiti dopo di lui, che non a caso storico non era, che la pace che seguì al Congresso di Vienna durò più un secolo; in Europa, naturalmente. Con le guerre etniche balcaniche fomentate dai dissidi tra grandi potenze, quel secolo finì con la Grande Guerra, ora oggetto di un revival di studi di vario interesse e novità.



Il secolo “politico” durò quasi cent’anni. Dopodiché, il sistema di Vienna, nato con il Congresso, crollò nell’agosto del 1914, quando i contrasti tra i Grandi dell’Europa, i loro appetiti coloniali e gli sfoghi di sciovinismo, portarono allo scoppio della Prima guerra mondiale. La tragedia fu che a quella guerra seguì il crollo degli imperi che avevano per un secolo garantito la pace mondiale sul continente e fatto da scudo militare all’imperialismo coloniale nel mondo intero, scaricando sulla periferia i conflitti inter-imperiali.

Terminò in tal modo quel mondo che Lukianov descrive magistralmente: «L’essenza del “Concerto delle nazioni”, convocato dopo Vienna, consisteva […] nel fatto che le grandi potenze, in caso di contrasti, erano in ogni caso in grado di ristabilire l’equilibrio mediante la via diplomatica. Al termine di ogni crisi, i rapporti tra gli attori chiave venivano “precisati” e le condizioni dell’equilibrio “aggiustate”. Fu quello che successe nel 1856 al Congresso di Parigi (dopo la Guerra di Crimea), nel 1871 alla Conferenza di Londra (dopo la Guerra franco-prussiana), e nel 1878 al Congresso di Berlino (dopo la Guerra russo-turca)». La Prima guerra mondiale, come ho già detto, sgretolò il sistema imperiale che rendeva il controllo, più che il dominio, del mondo possibile.

Christopher Clark, nel suo The Sleepwalker: How Europe Went to War, pubblicato da Allen Lane nel 2013 (si veda la bellissima recensione di Thomas Laqueur, sulla “London Review of Books”), ci offre forse la più interessante chiave di lettura storiografica di un evento che non può non costituire un fondamentale punto di riferimento comparativo per i nostri attuali dilemma conoscitivi. Nel tempo prodromico allo scoppio del conflitto, la Germania aveva, per il grande gioco di potenza dell’epoca, sostituito la Russia come nemico principale, per la minaccia che quest’ ultima costituiva nei confronti degli interessi inglesi in India e nell’Asia Centrale. Di lì un processo che diede vita alla trasformazione di un ordine mondiale fondato non più su accordi diplomatico-militari di lungo termine, ma su alleanze episodiche (“short term adjustments”) spesso fondate su presupposti giusti, ma di cui non si colsero immediatamente le conseguenze future.

La sconfitta russa nei confronti del Giappone nella guerra del 1905, per esempio, aveva fatto sì che l’interesse preminente della Russia – che si vedeva così sbarrato ogni disegno di domino assoluto in Asia – fosse divenuta l’Europa, tramite il dominio da assicurarsi sui Balcani. Di qui il conflitto con la Germania, che si avviava a rivaleggiare anche con gli Usa per il dominio mondiale su scala militare. E tutto ciò mentre in Europa la cuspide del potere si raggrumava attorno a figure di imperatori fortemente orientati all’esercizio del potere mondiale per via militare anziché diplomatica, com’era stato in passato. La catastrofe non poteva che avvicinarsi sempre più, come in effetti accadde. Il secolare conflitto franco-tedesco, mai sedato dopo Sedan, fece il resto. Dalla periferia balcanica al centro continentale europeo le armi avevano sostituito la diplomazia e la guerra era inevitabile. È lo stesso scenario che s’intravede oggi.

Il secolo che si è appena chiuso alle nostre spalle inizia di fatto con la fine della Seconda guerra mondiale: quello precedente, come ci insegnò Arno Mayer, si prolungò sino al 1918 e gli anni tra le due guerre mondiali altro non furono che la terra di nessuno tra due secoli profondamente diversi e con una soluzione di continuità profondissima: la Rivoluzione russa e l’emersione definitiva degli Usa come potenza dominante in un mondo da ricostruire dalle fondamenta sia al centro che alla periferia. È questa ricostruzione con una leadership indiscussa che è terminata. Il crollo dell’Urss è stata un’illusione per coloro che credevano ch’essa, quella ricostruzione, potesse continuare come in passato. Come spesso si dice giustamente, ora gli Usa sono tanto grandi per continuare ancora a occuparsi dei destini di tutto il mondo dal centro alla periferia, ma non così tanto da poterlo fare da soli, come prima.

«In questo contesto – cito di nuovo Lukianov – lo “spirito del XIX secolo” assomiglia in un certo senso alla città perduta di El Dorado. Tra il 1815 e il 1910, l’Europa evitò grandi scontri tra i maggiori Stati. Ciò, però, non si tradusse nella totale assenza di concorrenza spietata o di conflitti armati (basti ricordare la Guerra di Crimea, quella franco-prussiana o il conflitto russo-turco). Il “Concerto delle nazioni” cadde, nonostante tutto, in rovina, a causa di una serie di ragioni obiettive. La politica mondiale aveva smesso di essere sinonimo di politica europea. Lo sviluppo burrascoso del capitalismo, la prima ondata di globalizzazione e l’espansione coloniale avevano ampliato il terreno di gioco e aumentato la posta in gioco. Le agitazioni interne di ciascuna potenza continentale erano aumentate, il che rese ancor più complicato il mantenimento dell’equilibrio».

La fine della diplomazia internazionale fondata sui principi di Westfalia ha inferto un colpo mortale all’equilibrio instabile ma solido prima richiamato. Ora concetti estranei alla ragion di Stato e al principio di potenza sono penetrati nelle culture delle nazioni dominanti – ed esse son molto più di un tempo su scala regionale… – così profondamente da sconvolgere il mondo e portarlo alla catastrofe.

In questo senso la Russia di Putin non ha invece abbandonato i principi di Westfalia e li esercita nel suo plesso di dominio ricostituito dopo il crollo dell’Urss. E, inoltre, essa è consapevole del disastro in cui è caduto l’Occidente per l’abbandono di quei principi. In tal modo può sfruttare a suo vantaggio il caos generato in primo luogo dal fatto che gli Usa non sanno più governare il mondo: primavere arabe docet, ma l’elenco a partire dall’Afghanistan e dall’Iraq è già assai lungo. La Russia sfrutta il caos generato dall’incapacità preclara nordamericana – un pericolo per tutto il mondo civilizzato – per estendere il suo potere che è stato profondamente colpito dal non rispetto dei patti taciti seguiti al crollo dell’Urss. Ossia il patto che nessuno Stato cuscinetto tra Urss ed Europa sarebbe stato inserito né nell’Ue, né nella Nato. È successo tutto il contrario con uno squilibrio mondiale immenso che ha ridotto la Russia a uno stato di isolamento che Sergei Karaganov ha descritto magnificamente.

La crisi ucraina è figlia di questo isolamento, di questa mancata lealtà internazionale, di un ritorno all’uso del terrore convenzionale a geometria variabile, come fanno sia gli Usa, sia la Russia. Per quel che riguarda poi i diritti umani, principio catastrofico se applicato su scala internazionale, come dimostra l’attuale caos, dovrebbero valere per tutti. Che si tratti, invece, di un’ipocrisia, lo dimostra la situazione delle minoranze russe negli stati ex-sovietici. Il primo provvedimento del nuovo “governo” ucraino è stata l’eliminazione del russo nelle scuole senza che l’Ue – sempre tanto political correct – elevasse il suo lamento…

Il crollo della diplomazia internazionale è dinanzi agli occhi di tutti. Al kissingerismo non si è sostituito nulla e il futuro, nell’assenza di diplomazia professionale di alto livello in ogni dove, è divenuto veramente denso di nubi. Di violenza e di ipocrisia.

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