Si avvicina nel peggiore dei modi possibile la chiusura del lunghissimo processo di riforma delle province, con l’approvazione forzata con la fiducia imposta dal Governo del ddl Delrio da parte del Senato (in attesa della definitiva votazione alla Camera). Il disegno di legge avviato l’estate 2013 su iniziativa del Governo Letta, per rimediare alla sentenza della Consulta che aveva bocciato l’improvvida iniziativa di riforma del Governo Monti, contrariamente a quanto si legge in molti media, non porta affatto all’abolizione delle province. Si tratta di un loro riordino, che, tuttavia, alla prova dei fatti appare assai caotico e dai risultati concreti poco efficaci.
Il ddl è viziato per il fatto che si limita a prevedere solo lo svuotamento delle province, suscitando una confusione estrema in merito ai soggetti competenti, nel medio termine, a gestire le funzioni che saranno sottratte alle province. Infatti, risulta solo chiaro che nei 10 territori nei quali nasceranno le città metropolitane queste subentreranno integralmente alle province. Assolutamente più caotica la situazione nelle restanti 97 province. Infatti, nell’immediato, l’entrata in vigore della legge non cambia nulla, se non l’assetto degli organi di governo non più diretta espressione del corpo elettorale (ma questo vale anche per le città metropolitane).
Sullo spostamento delle funzioni provinciali verso altri enti la coltre di nebbia è fittissima. Infatti, occorrerà attendere successive leggi statali, le quali avranno il compito di assegnare ai comuni le funzioni provinciali attinenti alla potestà legislativa dello Stato. Allo scopo, si attende dal 2012, dall’iniziativa fallita di riforma del Governo Monti, un decreto che individui tali riforme. Non solo: anche le funzioni delle province a suo tempo assegnate dalle regioni dovranno essere riassegnate dalle regioni, con future leggi regionali, le quali potranno destinarle ai comuni, alle unioni dei comuni o a se stesse.
Ma, sorpresa: per effetto dell’articolo 118 della Costituzione, sia lo Stato, sia le regioni potranno decidere di attribuire le competenze ancora alle province, finché non vengano definitivamente abolite dalla riforma della Costituzione. Dunque, le sbandierate semplificazione e razionalizzazione delle competenze semplicemente non esistono. L’effetto del ddl è esattamente l’opposto.
Né migliori appaiono i risultati sul piano dei risparmi. Pur essendo il taglio della spesa uno dei principali “motori” dell’iniziativa legislativa, il ddl Delrio non quantifica nemmeno un cent di risparmio. La Corte dei conti, nell’udienza della Sezione Autonomie alla Commissione affari costituzionali della Camera dello scorso novembre 2013 (ribadita al Senato lo scorso febbraio) ha ipotizzato che l’unico vero risparmio ottenibile ammonta a 89 milioni di euro, il costo di indennità e gettoni di presenza dei politici al 2012. Un importo pari allo 0,01% del totale della spesa pubblica. Ma il risparmio sarebbe ancora minore, perché nel 2013 la spesa è stata di 78 milioni e se andasse a regime il taglio stabilito da Tremonti a consiglieri e assessori, la spesa diventerebbe di 35 milioni di euro.
La magistratura contabile, oltre tutto, ha mosso un’ovvia perplessità: nessuno ha computato i costi della riforma potenzialmente ingenti. Basti pensare a tutto il cambiamento di infrastrutture (software, telefoni), ai passaggi del patrimonio, delle risorse e del personale da un ente all’altro. Ancora, il ddl non è accompagnato dalla necessaria riforma dell’ordinamento finanziario e tributario locale, che occorre per garantire agli enti subentranti la ripartizione delle entrate al complesso delle spese di circa 10 miliardi di euro sostenute oggi dalle province.
Insomma, si tratta di un salto nel buio organizzativo, privo di una costruzione chiara del passaggio delle competenze, nonché di un computo serio dei costi e dei movimenti finanziari, patrimoniali e organizzativi da compiere.