“La musica stavolta deve cambiare”. Sta tutta in queste parole la scommessa di Matteo Renzi, avanti a tappe forzate per evitare di rimanere prigioniero di quella palude che hanno saputo frenare tanti tentativi riformatori precedenti al suo, Berlusconi, Monti e Letta, tanto per fare qualche nome. L’azzardo però è evidente, e il premier rischia più di andare a infrangersi sugli scogli della solitudine che nei pantani della conservazione.
Renzi rischia su due fronti, quello interno di un partito di cui non ha il pieno controllo, come dimostra la difesa che Pietro Grasso fa del Senato elettivo, e quello del rapporto con Forza Italia, fondamentale per legittimare il suo disegno riformatore. Nell’accordo del Nazareno c’era l’intenzione di superare il bicameralismo, svuotando di peso politico Palazzo Madama. Ma quel capitolo non aveva uno svolgimento dettagliato come la legge elettorale. Anzi, l’impegno era di scriverlo dopo il sì all’Italicum.
Con Forza Italia il premier sta tirando pericolosamente la corda: prima il ritocco alla soglia per accedere al premio di maggioranza, poi l’eliminazione della clausola di salvaguardia che prevedeva un sistema fotocopia al Senato in attesa dell’abolizione. Alla Camera l’accordo ha retto, ma a Palazzo Madama il Pd pretende che si discuta prima della riforma della Costituzione (un testo che ancora attende il sì del governo per la formalizzazione), e solo dopo della legge elettorale, anche se tutto dovrebbe nelle intenzioni essere approvato entro le elezioni europee del 25 maggio.
Il patto vacilla. Dopo tre violazioni Forza Italia non può accettare che la proposta firmata Renzi/Boschi sia considerata blindata, perché non ha contribuito a scriverla, anche se ne condivide il punto fondamentale, cioè fare di Palazzo Madama un’assemblea delle autonomie non eletta direttamente. Avvertimento da prendere sul serio perché lanciato da Berlusconi in persona in una delle tante telefonate ai club. E c’è anche chi – come Romani – si spinge a ipotizzare che sarebbe opportuno un nuovo faccia a faccia fra il premier e il leader di Forza Italia per assicurare il percorso delle riforme.
Di un nuovo incontro con Berlusconi Renzi non vuol proprio sentir parlare, soprattutto alla vigilia della decisione sulla pena dell’ex Cavaliere. Sarebbe un regalo troppo grande all’avversario. Il premier sa che Forza Italia attraversa una fase di grande debolezza, ma forse proprio per questo potrebbe essere tentata dal far saltare il tavolo, puntando al voto con il Consultellum. Come casus belli potrebbe bastare un qualche cedimento sulle soglie o sulle liste bloccate. Questo scenario presupporrebbe però una rottura dentro la maggioranza o dentro lo stesso Pd: ipotesi possibile, anche se al momento poco probabile, visto che – ad esempio – sulle riforme costituzionali Alfano fa sapere di essere in perfetta sintonia con l’attuale inquilino di Palazzo Chigi.
Tra Forza Italia e il suo partito Renzi sembra propenso a prestare più attenzione ai mal di pancia democratici. La grinta con cui ha zittito il presidente del Senato Grasso, accusandolo di voler difende lo status quo, dimostra da sola quanto lui e i suoi temano l’aprirsi del fronte interno. Il documento dei sei senatori guidati da Francesco Russo che plaudono al richiamo di Grasso e fanno sapere che non saranno semplici esecutori di quanto deciso a Palazzo Chigi non è che l’aperitivo del Vietnam che attende le riforme in Senato. Grasso è stato chiaro, dicendo che potrebbero non esserci i numeri, spiegando di non stare dalla parte dei parrucconi.
Per Renzi, allora, imporre la sua linea al Pd diventa fondamentale. Venerdì scorso in direzione fra astenuti e contrari appena in venti non hanno approvato la sua relazione. E per chi osa mettersi di traverso è sempre pronto un richiamo brusco come quello che la vicesegretaria in pectore Debora Serracchiani ha riservato a Pietro Grasso: “Credo che, essendo stato eletto con il Pd, debba accettarne le condizioni”.
Potrebbe bastare a parlamentari terrorizzati dal ritorno alle urne e dal rinnovamento radicale che ne seguirebbe. Ma potrebbe anche non essere sufficiente, anche se al Senato quasi non esiste lo schermo del voto segreto. Certo, l’ex sindaco di Firenze si mostra convinto che un buon risultato alle europee (vicino al 30%, pronostica Delrio) finirà per azzerare il dissenso interno e dare più forza al suo tentativo. Bisognerà vedere, però, se a quel voto avrà la forza di resistere anche lo schema della doppia maggioranza, quella di governo e quella per le riforme.