La legge elettorale arriva all’esame della Camera con un quadro ancora irto di incognite. Ma al di là dei dubbi persistenti sulla soluzione tecnica è la filosofia di fondo a vacillare. Con un interrogativo che regna sovrano su tutto: possono due partiti che rappresentano insieme a malapena il 50 per cento dei votanti (e dunque poco più di un quarto del corpo elettorale, visto che non vota ormai abitualmente circa la metà degli aventi diritto) diventare per decreto i padroni assoluti di tutta la scena politica? Perché quello è l’obiettivo, speculare, che avvicina Renzi a Berlusconi al di là dell’apertura di credito che i due hanno fatto reciprocamente l’uno verso l’altro in tempi non sospetti, fin da quando Renzi non era ancora Renzi.
Non è detto che il piano funzionerà a perfezione, se perfino uno degli ispiratori del cosiddetto Italicum, il professor Roberto D’Alimonte, ora dice che qualcosa bisogna ritoccare nelle soglie di sbarramento, essendo troppo il 5 per cento e soprattutto essendo assurdo che un partito conta “x” se apparentato e la metà se corre da solo. Ma certo il resto del mondo si è messo d’impegno per farsi imbrigliare in questo schema tendenzialmente marginalizzante dei due partiti tendenzialmente maggiori (salvo verifica delle urne, naturalmente). La pervicace ostinazione dei 5Stelle nel coltivare il loro splendido isolamento ha praticamente congelato il consenso di più del 20 per cento degli elettori condannando fatalmente il gruppo a una scissione più che prevedibile ad opera di chi non se la sente di avallare questa linea da duri e puri imposta dal comico arrabbiato.
Ma c’è un’altra ampia fetta di consenso, che si richiama a vario modo alle ragioni del popolarismo, ad essersi auto-condannata alla marginalità coltivando il germe della divisione per gelosie reciproche, opportunismi e scarsa capacità di rimettersi in gioco. Se si ha in scarsa simpatia questa area si può parlare di centro o terzo polo, quasi a volerne preconizzare la marginalità e l’irrilevanza, mentre qualunque studioso di flussi elettorali potrebbe spiegare che in questa vasta area che va da Alfano fino a Fioroni (che nel Pd non vuole entrare nel Pse) passando per i Popolari di Mario Mauro, senza escludere ampi settori più avveduti di Forza Italia, che si annida il consenso tendenzialmente maggioritario e non sufficientemente intercettato né rappresentato, del disaffezionato popolo italiano. Invece la composizione del nuovo governo ha decretato l’ennesima lotta intestina fra gente che, in teoria, coltiva lo stesso orizzonte politico. Il Nuovo centrodestra di Alfano facendo valere la decisività del suo apporto al varo della nuova alleanza di governo, ha strappato la quasi totale riconferma della sua delegazione ( per fortuna perché almeno ministri come Maurizio Lupi mostrano di avere le idee chiare fra tanti neofiti), ma non ha mosso un dito – anzi – per evitare che ad essere penalizzato, per questo, fosse il partito ad esso più affine dei Popolari per l’Italia.
Il vero capolavoro, con destrezza, è stato realizzato attribuendo dignità ministeriale all’Udc che formalmente è ancora in gruppo, in Parlamento, con il partito di Mauro e Olivero, in modo da accontentare apparentemente, in questo modo, Cencelli, che però nella sua millimetrica precisione non avrebbe mai privilegiato un partito con una decina di parlamentari penalizzandone uno che ne ha circa il doppio. Ma si vede che Casini ha incassato la sua (mezza, quasi, forse) andata a Canossa nei confronti di Berlusconi (con quale formula o quale approdo non è dato ancora di sapere) rispetto a una presenza come quella di Mauro che sarebbe stata molto più fuori linea in un governo che ha tutta l’aria di essere un monocolore renziano al netto del pedaggio che il premier ha dovuto pagare ad Alfano, e solo al suoi partito.
Piccolo particolare, però, c’è sempre però il corpo elettorale a decidere, al di là dei calcoli frettolosi che si fanno. Non a caso un nuovo soggetto che ha fatto capolino in questi giorni, Corrado Passera (che ha lanciato la sua “Italia unica”) ha detto che il suo movimento non è né di destra né di sinistra «né tantomeno di centro» e che ogni decisione su possibili sbocchi politici è rinviata a giugno. Cioè dopo il voto europeo, che con il suo sbarramento al 4 per cento decreterà con tutta probabilità chi avrà diritto, in proiezione, a restare sulla scena anche nella politica italiana, visto che anche per la legge elettorale in arrivo per le Politiche (se mai si riuscirà a vararla) l’ipotesi più accreditata della soglia di sbarramento viene collocata ora al 4/4,5 per cento.
È ancora presto per dire chi andrà con chi, ma è forse tardi per sperare ancora che qualcosa di buono ne possa venire fuori: tutto lascia pensare che l’enorme opportunità offerta dal voto europeo per dar vita a un grande contenitore popolare post-berlusconiano possa essere utilizzata, di modo da intercettare in modo credibile il grande smarrimento e la grande attesa che regna in questa area di consenso orfana di un partito realmente in linea con la tradizione europea e degno erede della migliore tradizione democristiana del nostro Paese. O forse no. Nel quadro in repentina trasformazione del nostro sistema politico magari qualcosa si muove e riuscirà a spiazzare un po’ tutti. Ma per ora non se ne vedono le avvisaglie, essendo la scena occupata solo da gelosie e pretese di primogenitura di scarso appeal presso il disilluso elettore moderato – che brutta parola… – del nostro Paese.
Nel frattempo sul versante di centrosinistra si rivede Romano Prodi, che plaude alla federazione di alcune componenti che con la denominazione di “Scelta europea” si ripropongono di aderire all’Alde a Strasburgo, distinguendosi da socialisti e popolari. Nell’area di Bruno Tabacci qualcuno già inneggia al ritorno della Margherita. L’impressione è che i centristi potranno a questo punto a malapena condizionare con il loro apporto l’alleanza cui aderiranno, su un versante o su un altro. Ma almeno a sinistra c’è piena consapevolezza di ciò e nessuna velleità di fare di più di questo. Sul centrodestra invece il mancato processo di aggregazione al centro, che avrebbe avuto prospettive ben più ambiziose, rischia di assomigliare sempre più a una occasione mancata fra Udc Ncd e Popolari per l’Italia che continuano a parlare linguaggi diversi fra loro. Ma staremo a vedere.