“Canamus paulo maiora”, diceva Virgilio. E le cose maggiori, in questo momento, riguardano la complessa situazione politica in cui il nostro paese e l’Europa, per l’ennesima volta, si ritrovano a vivere. Le analisi e i giudizi di tipo politico, tuttavia, lasciano sempre il tempo che trovano e sono valide nello spazio di un umore, di una dichiarazione, di un interesse effimero. Per questo è intelligente provare ad andare al di là delle vicende per cogliere le linee di fondo che la realtà in questo momento, così com’è, ci suggerisce.
Anzitutto appare centrale il tema della democrazia. In Italia, a dispetto di tanti detrattori, la Seconda Repubblica ha profondamente acuito il senso della democrazia nel popolo: nessun cittadino, infatti, tollera più volentieri l’esistenza di governi legittimi costituzionalmente, ma privi del mandato elettorale. Nella nostra Repubblica, insomma, benché la costituzione da oltre sessant’anni ci offra la possibilità di eleggere il parlamento e non il governo, pare improrogabile una riforma che consegni ai cittadini il diritto – da molti ormai considerato sacro – di scegliere direttamente anche il timoniere del potere esecutivo oltre che coloro che debbono esercitare quello legislativo. La democrazia sta così decisamente cambiando forma: si sta trasformando da rappresentativa ad esecutiva, costringendo la politica a costruire nuovi spazi di mediazione per impedire che ogni furore del momento diventi legge o decreto.
La vicenda ucraina, con la rivoluzione di febbraio e la crisi di Crimea, ci mostra – infatti – che non basta un sistema istituzionale meno complesso o più efficiente a risolvere i problemi: è necessario uno spazio dove le nazioni diventino popoli e i popoli elaborino sintesi, visioni e orizzonti comuni. La pretesa di “conoscere” il paese è quanto mai arrogante e datata: senza l’apporto della società civile, non solo come facciata ma come interlocutore permanente della politica, la nostra patria è destinata ad affogare nei marosi dell’ideologia e della manipolazione mediatica. L’Italia, infatti, non è più quella degli anni ottanta e novanta, essa oggi è una “penisola sconosciuta”, una terra nuova: la sub-cultura televisiva, unita alle reminiscenze della tradizione cattolica, ha creato un ibrido emotivo e irrazionale che appare distantissimo non solo dalle elites industriali ed economiche del paese, ma pure dalla classe media che manda i figli al liceo o all’università.
C’è un mondo che oggi fa fatica a riconoscersi in De Gasperi o Togliatti, in Pasolini o Montanelli, ma che non stenta a mettere insieme Luxuria e Padre Pio. Chi parlerà a questo mondo? Chi saprà ascoltarlo e metterlo in contatto con le grandi questioni del nostro tempo? Questa è la sfida che si trova davanti la politica oggi.
Per questo è retroguardia sia fare la legge sull’omofobia, sia promuovere convegni sul concetto di natura: è l’educazione il vero tema del nostro tempo, l’educazione dell’Io. Essa non riaccade per magia attraverso una protesta o una legge, ma avviene dentro ognuno di noi e attraverso ognuno di noi. Per questo abbiamo bisogno di gente che si metta insieme, gente che riprenda la decisione di essere discepola della vita e della realtà, pronta a raccontare e a incontrare ogni frammento di esistenza non con lo sguardo e la dottrina di chi ha già capito tutto, ma con la carità di chi sta costruendo qualcosa.
Matteo Renzi oggi si trova a essere la risposta che i media e i poteri forti cercano di dare alla complessità economica e politica del presente. In tanti si aspettano che fallisca o che trionfi, pronti a ridiventare tutti berlusconiani o post-berlusconiani a seconda della convenienza. Ma non è questo il punto: la generazione di Matteo si trova alle prese con il deserto che hanno creato i nostri padri. La loro concezione ideologica e onnivora della politica e della storia ha distrutto le fondamenta di questo paese, pensando di governarlo ora col diritto e il moralismo, ora con il clientelismo e la deresponsabilizzazione. Renzi dovrà decidere a chi parlare e come parlare. Dovrà dirci che cosa vuol dire per lui oggi essere “di sinistra” e che cosa intende offrire ai suoi figli e al cuore di chi ogni giorno lavora e piange. Questo è quello che un paese normale dovrebbe chiedere al proprio presidente del Consiglio. Chiunque esso sia. Consapevoli che coloro che oggi criticano o urlano al disastro sono quelli che il disastro lo hanno creato. Per questo c’è poco tempo per giocare o per schierarsi: bisogna ridare la parola a coloro che vivono e che lavorano, bisogna mettersi insieme e ricostruire. Divertirsi su twitter o ad Amici è infatti facile. Permettere alla politica di tornare ad ascoltare davvero la vita della gente, riconsegnando al dialogo con la società civile il giusto spazio e la giusta dignità, non è soltanto difficile, è anche tremendamente urgente.