L’ingresso del Pd nel Pse-Socialists&Democrats (questo il nuovo nome!) pone fine al “lungo addio”, iniziato nel 1989, del comunismo italiano alla storia del Paese. 

Che sia stato Renzi a fare l’ultimo passo, e non uno degli uomini della nuova/vecchia guardia comunista, ha una sua logica: Renzi non è mai stato comunista e neppure vetero-socialdemocratico, la sua cultura politica è cattolico-personalista, più vicina a quella di Tony Blair e di Gehrard Schröder di quanto non lo sia quella del gruppo dirigente Pd. Perciò Renzi è più in sintonia con il nuovo corso socialista/democrat del Pse. D’un balzo, ha avuto l’energia, che è sempre mancata ai successori di Occhetto, di superare l’avversione togliattiano/berlingueriana per la socialdemocrazia europea, che la sinistra interna e esterna al Pd ha sempre custodito, quasi fosse un tratto identitario. 



Ora che la nave comunista è alla fonda per sempre, in attesa di essere malinconicamente smantellata in qualche porto, “dove vanno i marinai?”, si chiederebbero Dalla e Guccini. Dove sono i comunisti, oggi, e dove andranno? La risposta presuppone che siamo in grado di definire che cosa significhi “comunista italiano”. Per non imbarcarci in una discussione dottrinaria sulle essenze, che ci porterebbe fatalmente a domandarci medievalmente quanti comunisti possano sedere insieme sulla punta di uno spillo, prenderemo atto qui dei risultati della storia reale: “comunisti” sono quelli di “Gramsci-Togliatti-Berlinguer”. 



Sì, la storia del comunismo italiano è più varia: bordighisti, trozkisti, maoisti, operaisti, luxemburghiani, marxisti-leninisti, Sinistra cristiana, Cristiani per il socialismo, Br, Prima linea, No Global, No Tav, … Si tratta di filoni intellettuali, talora con qualche capacità di radicamento sociale, ma i comunisti che hanno segnato la storia d’Italia sono quelli del Pci. Comprendere sulla base di quali scelte fondamentali hanno contato nella storia del Paese aiuterà probabilmente a spiegare perché la loro agonia è durata 25 anni, mentre quella della Dc e del Psi solo un paio d’anni, e a prevedere il destino di una generazione politica ormai al tramonto. 



Il primo tratto caratteristico del Pci di Togliatti è la scelta “democratica”, che egli proclama nell’aprile del 1944, al suo arrivo in Italia. Stalin gli ha appena spiegato che nella nuova struttura del mondo, che la Conferenza di Yalta (11-14 febbraio 1945) si appresta a sancire, non c’è posto per la rivoluzione comunista a Ovest. Non c’è nessun Palazzo d’Inverno da conquistare, ma, piuttosto, una lunga serie di casematte della società civile, ma questo lo dirà il Gramsci dei Quaderni del carcere pubblicati postumi qualche anno dopo. 

A un Pci renitente, all’epoca impegnato nella sanguinosa lotta di liberazione nazionale e tentato di trasformarla in lotta armata per la presa del potere, analogamente a quanto sta accadendo in Grecia nello stesso periodo, Togliatti impone un altro scenario, diverso da quello greco: quella della via democratico-parlamentare per la conquista del potere. La chiamerà “democrazia progressiva”. Il significato restava consapevolmente ambiguo: perché escludeva sì ogni atto di forza, ma dava poi per inevitabile che le trasformazioni economico-sociali e istituzionali (“le riforme di struttura”) generate dalla presa del potere avrebbero reso questa irreversibile. 

Era la via dei comunisti cecoslovacchi, sperimentata vittoriosamente nel 1948. Ambiguità che la Costituzione del ’48 aveva sciolto a parole, ma che continuarono a covare nel corpo profondo del partito come un virus mai completamente debellato e si riaffacciarono nel periodo cruciale degli anni 1968-70 e durante gli anni di piombo. 

Il secondo tratto decisivo è quello del ruolo dello Stato. Nella vulgata marxista, lo Stato è lo strumento essenziale per realizzare l’eguaglianza. Essa caratterizza il kerigma della sinistra rispetto alla destra, che invece pone al centro della propria costellazione di valori la libertà. Libertà, osserverà maliziosamente Karl Marx, per i proprietari dei mezzi di produzione di accedere ad ogni opportunità della vita e per i proletari di dormire sotto i ponti. Per realizzare la libertà basta uno “Stato minimo”, che difenda la proprietà privata e la sicurezza; per realizzare l’eguaglianza, occorre uno “Stato massimo”. Per il Pci, esso è lo strumento principale della redistribuzione della ricchezza, imprenditore attraverso le Partecipazioni statali, agente sociale attraverso le azioni di welfare, creatore di posti di lavoro, attraverso l’espansione delle funzioni pubbliche. 

Il terzo tratto è quello del ruolo del partito. Il partito e i partiti sono “la democrazia che si organizza”, secondo la famosa definizione di Togliatti data durante i lavori della Costituente. Baget Bozzo ha dedicato alla Dc un volume intitolato Il partito-stato. A maggior ragione, tale definizione si attaglia al Pci. Proprio perché escluso dal governo, esso incomincia una lunga marcia verso l’occupazione di ogni apparato dello Stato, muovendo dalla conquista delle casematte della società civile. Il partito − anzi, secondo la felice definizione di Giovanni Orsina, “l’arci-partito” − si pone al punto di intersezione tra società civile e stato, dilatando enormemente lo spessore della mediazione politica. 

Quando Enrico Berlinguer, in una famosa intervista a Scalfari del 1981, denuncia, a proposito dei partiti: “Hanno occupato lo Stato e tutte le sue istituzioni. Hanno occupato gli enti locali, gli enti di previdenza. Le banche, le aziende pubbliche, gli istituti culturali, gli ospedali, le università, la Rai, alcuni grandi giornali”, dimentica tuttavia il “de te fabula narratur”. 

La centralità istituzionale del sistema dei partiti e il loro dominio incontrollabile sull’intera società e sullo Stato sono esattamente ciò che Togliatti aveva costruito e che la Costituzione ha permesso, avendo sempre il suo partito opposto un No radicale a qualsiasi ipotesi di regolamentazione della vita dei partiti. Che sono rimasti grandi associazioni private di cittadini con un enorme arbitrario potere pubblico.

È grazie a questa eredità che, dopo il 1989, il Pci ha potuto attenuare l’impatto della deflagrazione del sistema degli stati comunisti. Diversamente da altri partiti comunisti europei, quale quello francese o spagnolo, aveva praticato per tempo la propria autonomia dal campo sovietico, la fedeltà alla Repubblica, ma, al contempo, poteva attingere alle risorse del radicamento nella società civile e nello stato. La Dc e il Psi avevano avuto storicamente ragione, ma uscivano sconfitti dal cataclisma dell’Est. Né sorprende che, dopo la dissoluzione della Dc, l’ala più statalista, quella della sinistra Dc, ben radicata nelle Partecipazioni statali, abbia trovato punti di convergenza e persino di fusione con il Pci, che intanto incominciava un valzer vorticoso di sigle: prima Pci-Pds, poi Ds, ora Pd, domani si vedrà. 

L’alleanza tra ex-Pci ed ex-Dc ha costituito il nucleo della difesa della prima Repubblica e della Costituzione del 1948. La base dell’alleanza è il principio-Stato, a dominio partitico. Molti ricordano la risposta che De Mita diede ad Assago nel 1987 a don Giussani, che aveva difeso le ragioni della società civile, dell’iniziativa individuale e civile e criticato l’invadenza dei partiti e dello Stato: occorre un di più di Stato! Il cedimento ai principi maggioritari sul piano del sistema elettorale non ha mai comportato una revisione dell’assetto istituzionale in senso presidenzialista. Alla fine, ciò che ha posto fine alla storia, è stata la percezione popolare crescente che il sistema parlamentare, nel quale i partiti dominano tuttora il Parlamento, il governo, la presidenza della Repubblica, non è in grado di portare il Paese oltre l’abisso del declino, perché esso diventato il luogo dell’intreccio perverso delle corporazioni. 

In questo contesto, la tradizionale cinghia di trasmissione tra partito e sindacato, che funzionò ancora nel 1985, all’epoca della battaglia sulla scala mobile, oggi ha invertito il senso di rotazione: la potente corporazione sindacale detta legge e dà voti al Pd. Ostinatamente i D’Alema e i Bersani hanno riproposto lo schema togliattiano del primato dei partiti (di cui quello del Parlamento è solo una conseguenza) e perciò delle alleanze tra partiti per fare/disfare i governi: rappresentanza onnipotente, governo debole, elettore fermo sulla soglia del Parlamento. L’arrivo di Renzi ha fatto saltare l’intero schema. E questa sì che è la vera fine del paradigma del comunismo italiano.

E i “marinai”? Incomincerà la diaspora. Molti ex-Dc non reggeranno la svolta “blairista” e tendenzialmente presidenzialista e post-partitista di Renzi. Ma i porti non mancano: quello di Casini e dei Popolari per l’Italia, pronti nell’immediato, come nello schema tedesco, a fare da terzo incomodo, ma in futuro, una volta messo da parte Berlusconi, a contendergli la leadership di un centro-destra meno populista e più popolare. Gli ex-Pci devono solo concludere il loro cursus honorum nelle istituzioni. D’Alema sta sempre pronto per la Repubblica, il dopo Napolitano non è troppo lontano. Bersani andrà in pensione a Strasburgo. I Giovani Turchi hanno già dimostrato scarsa fedeltà ai sacri principi e discreta prontezza al riciclaggio. E la sinistra radicale interna? Per entrare nei No Tav occorre “un fisico bestiale”. Resta Tsipras…