Il finale è già scritto, almeno quello del primo atto: alla fine Silvio Berlusconi dovrà acconciarsi a un cedimento, il terzo, sulla legge elettorale per ottenere il sì della Camera alla riforma della legge elettorale fra lunedì e martedì. Un cedimento minimo, ma qualcosa in tema di parità di genere fra uomo e donna dovrà concedere. Il finale, quello del testo definitivo che uscirà dal Senato, è invece un’incognita assoluta, e la vicenda preoccupa non poco il Cavaliere.



Tamburi di guerra assordanti si levano da Palazzo Madama, dove la tribù dei senatori non è certo felice di essere pronta a votare la propria autodistruzione, e sembra intenzionata a farla pagare cara proprio sull’atto che precede la riforma del Senato, cioè l’Italicum. Il fronte che vuole sabotare l’intesa del Nazareno – che ha già più buchi di un colabrodo – è ampio, e va dalla minoranza democratica a Nuovo centrodestra. Alla Finocchiaro che si prepara a riaprire il contenzioso sulle soglie di sbarramento e sulle preferenze si aggiunge un minaccioso Schifani, secondo cui l’assemblea di Palazzo Madama non potrà procedere a una semplice presa d’atto notarile di quanto deciso a Montecitorio.



Al contrario, è proprio ciò che vogliono i forzisti: quel che esce dalla Camera non si tocca. Su due punti Berlusconi ha già dovuto cedere, l’innalzamento dal 35% al 37 della soglia per far scattare il premio di maggioranza (e l’abbassamento dal 5 al 4,5% dello sbarramento per le forze in coalizione), e poi sull’applicabilità dell’Italicum solo alla Camera, con l’impegno di andare senza indugio all’abolizione di fatto del Senato, sulle cui modalità però non c’è alcun accordo. Sulla parità di genere alla fine non potrà resistere troppo: si tratterà sino a lunedì mattina alla ricerca di una mediazione che non scontenti troppo nessuno e alla fine è probabile che si troverà.



Al di là del dato tecnico, relativamente modesto, Berlusconi è preoccupato che la vicenda delle quote rosa possa funzionare da grimaldello per far saltare l’intero impianto della legge elettorale. E le rassicurazioni venute dai collaboratori di Renzi non devono essere parse convincenti. Anche quel “si proverà a migliorare la legge sino all’ultimo, ma con la partecipazione di tutti gli attori e mantenendo gli impegni presi” venuto dal ministro Maria Elena Boschi è parso del tutto insufficiente. Si capisce dalla delusione manifestata chiaramente da Giovanni Toti per le prime mosse di Renzi premier. 

Dal punto di osservazione del Cavaliere, insomma, il percorso delle riforme sembra essere messo a serio rischio dall’impossibilità da parte di Renzi di controllare la propria maggioranza, e persino il proprio partito. 

L’ottimismo del 18 gennaio, giorno dello storico faccia a faccia del Nazareno, è svanito quasi del tutto, e il rischio che la fragile impalcatura di quell’accordo salti aumenta di giorno in giorno. Se sin qui Berlusconi ha resistito alla tentazione di rovesciare il tavolo è soprattutto per il timore di finire ai margini della scena politica.

Non sarà la parità di genere a bloccare le riforme, anche perché il leader di Forza Italia non può sottovalutare la rivolta delle donne azzurre, gran parte delle quali ha firmato l’appello delle 90 parlamentari a favore delle quote rosa. Se però si dovessero ritoccare le soglie, oppure bocciare le liste bloccate, Berlusconi sarebbe costretto ad andare allo scontro frontale. E lo stesso Renzi ne uscirebbe fortemente ridimensionato, anche se il premier sta cercando il colpo vincente sul terreno della scossa all’economia, preparando per la prossima settimana quei provvedimenti che nelle sue intenzioni costituiscono quello choc salutare che potrebbe risvegliare il paese.

Renzi però sa bene che da sola la scossa all’economica non gli sarebbe sufficiente a consolidare la propria premiership. In qualche modo dovrà fare i conti con quella doppia maggioranza che ha adesso lo stesso pilota. E qui c’è una strettoia che non gli sarà facile superare. Come scriveva giorni fa Michele Ainis, “la doppia maggioranza è praticabile quando i piloti sono due, com’erano Letta e Renzi”. Il difficile è incarnare il doppio ruolo, specie se – come nel caso di Renzi – si ha assoluto bisogno dei piccoli partiti per continuare a governare. E Alfano non mostra alcuna intenzione di facilitare il dialogo fra il premier e il leader di Forza Italia, perché sa che lui ne sarebbe la prima vittima.