Il consiglio dei ministri ha varato ieri all’unanimità il disegno di legge costituzionale di riforma del Senato. Composto da 148 membri che non percepiranno alcuna indennità, non sarà elettivo, non voterà la fiducia, non voterà il bilancio. Sarà eletto in secondo grado e risulterà composto da sindaci e rappresentanti di Regione e ne faranno parte senatori a vita ed ex presidenti della Repubblica. “Io non so se ci sarà un lieto fine, ma è un buon inizio. È finito il tempo dei rinvii” ha detto Matteo Renzi al termine del Cdm. Fare per dimostrare di esserci, cambiare per combattere il populismo. Sembra questo il nuovo imperativo della politica a guida renziana: cambiare. Sul come e sul che cosa, però, cominciano i dubbi. Come quelli di Alessandro Mangia, costituzionalista dell’Università Cattolica.
Il nuovo Senato comincia con un ddl governativo.
È tutto in perfetta linea con l’evoluzione di questi ultimi anni. Monti, da capo del governo, disse che sul tema della legge elettorale si sarebbe potuto agire con decreto legge se le camere fossero restate inerti. Poco importa che la Costituzione dica tutt’altro. Siamo ormai in presenza di una rottura definitiva degli schemi tradizionali che reggono il rapporto tra Governo e Parlamento.
Che cosa intende?
Non c’è più un Parlamento che riesca a coagulare consenso su specifiche iniziative di legge; si raggiunge a malapena il consenso sull’investitura del presidente del Consiglio e del governo; dopo di che si delega al governo e al premier il compito di gestire l’agenda politica.
Sono mutamenti irreversibili secondo lei?
Difficile dire. Ho citato Monti, ma lo stesso Letta, già presidente del Consiglio, in diverse occasioni ha criticato il sistema bicamerale. Lo stesso sistema che aveva proceduto alla sua investitura. È evidente che ci troviamo in una situazione anomala mai sperimentata prima.
Pietro Grasso, dopo l’intervista a Repubblica, ha continuato a distanza il confronto con Renzi. “Non partirei dalla composizione (del Senato, ndr) senza capire quale funzione prima vogliamo dargli”. E ancora: “vedo una diminuzione degli spazi di democrazia”.
Per ragionare su questo schema di legge costituzionale bisogna ricostruire un quadro generale. Oggi siamo di fronte ad un spaventosa crisi dei sistemi di rappresentanza, cui si cerca di reagire scambiando l’effetto per la causa col risultato di limitare i luoghi della rappresentanza politica. Il tema dell’eliminazione del Senato non è indipendente da quello dell’eliminazione delle province e più in generale della crisi dei partiti politici.
Quindi, che sia il governo a dover assumere l’iniziativa per quanto riguarda le leggi di riforma del Senato…
È segno del fatto che non ci sono più partiti politici in grado di assolvere al compito di elaborare un indirizzo politico. Hanno abdicato. Delle tre maggiori formazioni politiche, M5S dice apertamente di non voler essere un partito politico. Forza Italia, se è mai lo è stato, adesso ha cessato di esserlo. L’unica struttura politica che ricorda da vicino le dinamiche classiche dei partiti è il Pd. Ma questo Pd si muove in un contesto completamente diverso rispetto a quello in cui i partiti politici sono sorti e hanno operato.
Quindi?
Anche i partiti accusano la fortissima polemica antiparlamentare che c’è nel nostro paese da anni e, sostanzialmente, la subiscono.
Compreso il capo del governo?
In qualche misura, sì.
Rispondendo a Grasso, Renzi ha detto che i politici devono capire che i sacrifici ora devono farli loro anziche le famiglie. Cosa c’entra il reddito delle famiglie con il bicameralismo?
Appunto. Uno dei giochi di specchi che vengono alimentati è quello per cui la diminuzione dei costi della politica porterebbe un qualche beneficio al quadro economico complessivo. È una tesi ridicola. Certo è deprimente leggere che i consiglieri regionali usano i soldi pubblici per comprarsi perfino il barattolo di Nutella. Dovremmo però riflettere su come mai la crisi finanziaria ed economica sia diventata, in Italia, crisi politica e istituzionale così velocemente. In questo terreno di coltura è chiaro che la politca antiparlamentare ha tutto il modo e lo spazio per svilupparsi.
Il nuovo Senato delle autonomie non sarà più elettivo. Su composizione e funzioni cosa pensa?
Ci sono molte ombre e qualche luce. La parte migliore di quel testo è quella che cambia le competenze legislative delle Regioni. Che occorresse intervenire sulla riforma cosiddetta federalista del 2001 è un dato di fatto, perché non ha mai funzionato.
Lei mi sta parlando della parte relativa al Titolo V, non del Senato.
Ma le due cose sono strettamente collegate e non potrebbe essere diversamente. Che cosa avrebbe dovuto essere il Senato? Io posso dirle quello che doveva essere per i costituenti: una camera elettiva, con una base elettorale diversa dalla Camera dei deputati, che avrebbe dovuto prevenire le involuzioni accentratrici della democrazia rappresentativa.
In che modo?
Con una connessione molto stretta tra funzioni del Senato come camera delle regioni e territori delle regioni. Quella formuletta per cui il Senato dovrebbe essere eletto a base regionale − e che ha sempre dato tanti problemi in sede di redazione delle leggi elettorali − voleva alludere proprio a questo.
Ma queste sono solo le intenzioni dei costituenti. Il loro federalismo non ha avuto grande successo.
Infatti. Fermo restando che il Senato è divenuto subito un duplicato della Camera, il disegno autonomistico del Costituente si è realizzato, e ha funzionato, in certe parti del territorio nazionale. In altre è stato un assoluto fallimento.
E cosa dice della composizione del nuovo Senato “alla Renzi”?
Guardi, penso che in tutta sincerità sarebbe meglio passare a un sistema monocamerale. Il testo di Renzi riprende alcuni spunti derivanti dal lavoro della commissione de 35 saggi e prevede un’elezione di secondo livello. Non capisco però che senso abbia creare una camera delle regioni con qualche presidente di regione, qualche sindaco e qualche altro rappresentante eletto dai consigli regionali e dai comuni, per poi affiancare a questi soggetti 21 membri nominati dal capo dello stato. I primi dovrebbero rappresentare gli interessi dei territori; i secondi non si sa: forse le categorie produttive, visto che contemporaneamente si elimina il Cnel. Sta di fatto che si profila un organo a composizione eterogena. Dopo di che, a questo organo che funzioni si danno?
Se lo è chiesto anche Grasso. Come se il criterio fosse: fare qualcosa purché si faccia.
Alla fine questa Assemblea delle autonomie avrebbe dei limitati poteri di interferenza nel procedimento legislativo. Certo, al nuovo Senato resterebbe il compito di votare le riforme costituzionali e le leggi di revisione costituzionale. Però mi chiedo: quale legittimazione hanno per farlo i suoi componenti? Quella di essere sindaci di qualche grande città? Ripeto, piuttosto che adottare un meccanismo di questo genere, che non assomiglia nemmeno da lontano ad una camera delle regioni in senso proprio, meglio sarebbe passare a un sistema monocamerale puro, portando poi in Costituzione la Conferenza stato-regioni. L’impianto complessivo ne guadagnerebbe in chiarezza.
È emendabile?
Ma come si fa, quando manca un disegno complessivo? Ferma restando l’opportunità di procedere a una riforma del riparto di competenza tra stato e regioni, questa riforma è priva di un obiettivo chiaro, al di là delle dichiarazioni di facciata.
Salvo snellire la politica e diminuirne i costi.
Ma allora l’obiettivo è un altro, lo dice lei stesso.
In vista delle elezioni?
Può darsi. Attenzione però, perché dopo il 25 maggio il quadro politico potrebbe essere molto diverso.
Cosa ci aspetta secondo lei?
Il rischio è lo sfacelo politico di ciò che, per comodità, chiamiamo ancora Unione europea, usando una espressione del passato recente. E’ chiaro che oggi l’Unione è qualcosa di molto diverso da ciò che ci si presentava solo qualche anno fa, prima dell’inizio della crisi finanziaria.
(Federico Ferraù)