“La lotta politica prevale sulla possibilità di fare le riforme in generale e buone riforme in particolare. E’ avvenuto in occasione della Bicamerale nel 1997 e lo stesso copione, sia pure in un contesto politico completamente cambiato, si sta ripetendo oggi”. E’ l’amara constatazione di Giuliano Urbani, ideologo e fondatore di Forza Italia nel 1994, nonché vicepresidente della Bicamerale D’Alema che tentò di riformare l’assetto istituzionale dello Stato sulla base di un accordo bipartisan. Dopo la sua uscita dalla scena politica nel 2005, Urbani ha separato il suo destino da quella del Cavaliere, e oggi non condivide in nulla l’esperienza della “nuova” Forza Italia.
In che cosa sono diversi il patto per le riforme tra Renzi e Berlusconi e la Bicamerale di cui lei è stato vicepresidente?
Innanzitutto sono diversi i temi. Nel 1997 l’ordine del giorno riguardava l’intero assetto istituzionale, mentre il patto tra Renzi e Berlusconi riguarda esclusivamente due punti: il Titolo V, che allora non era in discussione, e la riforma del Senato. L’ambizione è di gran lunga ridotta, anzi rispetto ad allora è proprio un altro mondo. Nel 1997 c’era un accordo parlamentare preciso con il coinvolgimento di tutte le forze politiche. Oggi invece c’è un accordo tra i maggiori partiti, con l’esclusione di una forza politica dal vasto consenso come quella di Grillo. Insomma tra la Bicamerale del 1997 e il patto per le riforme di Renzi e Berlusconi non c’è quasi nulla in comune, anche perché i momenti storico-politici sono molto differenti. Oggi come allora però c’è un accordo tra Berlusconi e il principale partito di centrosinistra.
Quanto fallì nel 1997 può riuscire oggi?
Quando si intraprende un percorso di riforma costituzionale la speranza è che abbia successo. Nel 1997 ci si era convinti che fosse possibile un accordo, e la determinazione a rispettarlo c’era come oggi. Poi non riuscì per le divergenze sulla questione della giustizia e sulla separazione delle carriere tra magistrati inquirenti e giudicanti, cioè sulla questione che è aperta perlomeno dal 1992-1993 e che ha caratterizzato l’intera storia politica degli ultimi 25 anni. Oggi le proposte di riforma del governo Renzi sono molto provvisorie, abborracciate, tutte da perfezionare e definire. I protagonisti ne sanno poco nel momento in cui ne discutono, e quindi anche oggi rimane tutto sospeso per aria.
Lei prima ha detto che il nodo della giustizia è ancora irrisolto. Rischia di fare fallire l’accordo sulle riforme come nel 1997?
Non credo, perché la riforma della giustizia in questo momento non è in discussione. I temi all’ordine del giorno in questo momento sono talmente impegnativi e importanti, da renderne molto problematica la stessa riuscita.
Qual è quindi il vero problema oggi?
Il vero problema è che non si capisce bene a che cosa debba servire il nuovo Senato federale, quali siano i suoi poteri, le sue competenze e i suoi limiti. Nella meccanica complessiva della riforma costituzionale, nessuno ha risposto all’interrogativo sul perché mantenere in vita Palazzo Madama. E soprattutto nessuno capisce quale ruolo possa avere nel futuro funzionamento delle istituzioni. E’ una domanda difficile, nel senso che è difficile rispondervi in modo logico e ragionevole. Tutto è incredibilmente abborracciato e impostato in modo approssimativo, e tutte le principali questioni rimangono irrisolte. Non è un bel momento per i riformatori istituzionali.
C’è mai stato un buon momento in passato?
A giudicare dai risultati no, anche se naturalmente le aspettative e le speranze in altri momenti sono state maggiori, soprattutto all’epoca della Bicamerale. La lotta politica, oggi come allora, prevale però sulla possibilità di fare riforme in generale e buone riforme in particolare.
(Pietro Vernizzi)