Nessuno lo conferma ufficialmente, ma ancora una volta va ascritto a merito del Quirinale se la delicata tela delle riforme costituzionali non si è strappata. Al termine di un fine settimana in cui sono rullati minacciosi i tamburi di guerra, il possibile showdown sembra allontanarsi, almeno di un mese.

Tutto rinviato a dopo le elezioni europee. Matteo Renzi, anche in virtù dello scambio di idee avuto con Giorgio Napolitano, ha accettato di fare un passo indietro sui tempi, spiegando di non avere intenzione di “impiccarsi su un data”. Non avrà lo scalpo della prima lettura della riforma costituzionale da sventolare nell’ultimo scorcio della campagna elettorale, ma ha incassato la retromarcia di Berlusconi sull’intenzione di far saltare il tavolo.



Al “simpatico tassatore” fiorentino l’ex Cavaliere non poteva certo concedere questo vantaggio. Lo spiega da giorni: queste non sono le riforme di Renzi, queste sono le riforme del centrodestra, quelle che erano in gran parte contenute nella riforma del 2005, bocciata dalla sinistra attraverso il referendum.



Due passi indietro sincronizzati sotto la regia del Quirinale, quindi, e un mese per ridiscutere sul pomo della discordia, il futuro assetto del Senato. I mediatori sono al lavoro: si studiano formule intermedie fra l’elezione diretta e quella indiretta della Camera alta. Ad oggi l’idea di Renzi è che i consigli regionali individuano i loro rappresentanti da inviare a Palazzo Madama, senza cioè che vi sia più l’automatismo per i governatori che è contenuto nella proposta del governo. Sul tappeto vi è l’ipotesi di un’elezione contestuale a quella dei consigli regionali, con mille dettagli che possono fare la differenza.



C’è anche il problema, rilanciato da Quagliariello, di diversificare il peso delle singole regioni in base alla popolazione, perché è difficile spiegare le ragioni per le quali il Molise debba pesare come la Lombardia, trenta volte più popolosa. 

Almeno a livello esterno, Renzi preferisce vedere il bicchiere mezzo pieno, e partire dai punti di accordo: abolizione del Cnel, una sola camera politica e revisione del titolo V, con l’eliminazione delle materie concorrenti e la cancellazione della parola province.

Il mese di piccolo trotto in tema di revisione della Costituzione consentirà al premier anche di confrontarsi senza troppa fretta con il dissenso interno, fronte davvero delicato. Cuperlo e i suoi puntano soprattutto a condizionare l’azione del segretario arrivato a Palazzo Chigi, e non solo sulla Costituzione che verrà. C’è tanta carne al fuoco, terreni scivolosi come la riforma del mercato del lavoro che porta la firma del ministro Poletti, ma che piace molto più ad Alfano che all’ala riformista dei dem. Alla Camera è stata necessaria la fiducia, al Senato Ncd promette battaglia per tornare al testo originario. Non è da escludere che alla fine il nodo gordiano sarà tagliato con un nuovo ricorso alla questione di fiducia.

Per recuperare i dissensi interni al corpaccione democratico Renzi le sta provando davvero tutte. È arrivato da Lucia Annunziata a ricordare che persino Berlinguer (assai prima di Prodi e dell’Ulivo)  voleva il superamento del bicameralismo paritario. Una stoccata a quelli (e non sono pochi) che lo accusano di procedere in maniera autoritaria su una strada che ha ben poco a che spartire con le idee della sinistra. L’obiettivo è riassorbire gran parte dei malpancisti, isolando i pochi veri pasdaran alla Chiti.

Se ha accettato di non forzare sui tempi, il presidente del Consiglio non vuole però lasciare spazi in campagna elettorale a Berlusconi e Grillo. Secondo lui sono due facce della stessa medaglia. Il leader di Forza Italia è azzoppato dai servizi sociali, ma è un avversario temibile. Ha dimostrato di avere sette vite come i gatti e non può essere sottovalutato. Oggi però a destare maggiori preoccupazioni fra Palazzo Chigi e Largo del Nazareno è sicuramente il comico genovese. I sondaggi gli sono favorevoli e Renzi sa che ogni tentennamento in materia di riforma dello stato e della politica costituisce benzina nel già potente motore del Movimento 5 Stelle. Grillo è stato categorico: ha annunciato che se i suoi vinceranno le europee, andrà da Napolitano e chiederà il governo del paese. Parole roboanti, che di sicuro semplificano un po’ troppo le dinamiche della politica. Ma indicano che oggi il principale pericolo per il Pd viene da Genova e non da Arcore.