Nelle prossime ore – con il deposito delle candidature per Eni, Enel, Finmeccanica, ecc. – sarà più chiaro perché Matteo Renzi ha improvvisamente accelerato l’avvento a Palazzo Chigi. Per cambiare l’Italia o per cambiare gli amministratori delegato? Una cosa può anche non escludere l’altra ma, di certo, a parte il fatto che nelle “primarie” di dicembre il sindaco di Firenze aveva chiesto di essere eletto segretario del Pd negando la sostituzione di Enrico Letta, il patto del Nazareno con Silvio Berlusconi si basava sul percorso di una rapida approvazione delle legge elettorale che consentisse l’investitura da parte delle urne. Il nervosismo di Berlusconi è più che giustificato nel momento in cui Renzi ha cambiato le carte in tavola diventando non la fronda di Palazzo Chigi ma l’inquilino ed il Cavaliere si è così trovato ad essere all’opposizione come sua principale sponda. Infatti il capo del governo usa il patto del Nazareno per mettere in riga il suo partito e la maggioranza. Berlusconi in verità aveva stipulato l’accordo in quanto vedeva nel “rottamatore” colui che lo avrebbe vendicato – “facendo fuori” Letta, Alfano, Napolitano – e che lo avrebbe “riabilitato” riconoscendogli il ruolo di statista e di “padre della Patria” per riformare Costituzione e Stato. 



Oggi invece Matteo Renzi è a Palazzo Chigi con l’appoggio determinante di Angelino Alfano e le elezioni sono rinviate alle calende greche. Non solo. Per Berlusconi è più facile incontrare il presidente della Repubblica (che accusa di essere il suo boia e autore di numerosi “colpi di stato”) mentre il leader del Pd, divenuto “premier”, lo evita e preferisce parlare con Denis Verdini e, al massimo, Gianni Letta.



Le prossime nomine di sottogoverno forse chiariranno la sostanza dell’intesa Renzi-Verdini confermata dalla retromarcia serale del Cavaliere che nella giornata di sabato aveva minacciato la rottura con il presidente del Consiglio sulla riforma del Senato. 

Il rapporto tra Renzi e Berlusconi sicuramente non è archiviato, ma è obiettivamente messo in difficoltà dal momento che Renzi ha trasformato la riforma elettorale e istituzionale nella principale carta da giocare nella campagna elettorale. Inoltre, per essere sicuro di poterla esibire, il “rottamatore” gioca su due tavoli: o l’accordo con Forza Italia da far “ingoiare” alla maggioranza di governo con la minaccia dello scioglimento anticipato delle Camere oppure, se il Cavaliere si defila, l’accordo con Alfano. L’abilità e la forza di Renzi non sono in discussione, però siamo di fronte a un gestore di riforme istituzionali che è pronto a cambiare radicalmente i testi di riforma, navigando a vista, per garantirsi la stabilità. La legge elettorale con Berlusconi è una cosa, fatta senza e contro di lui con Alfano e Casini prospetta agli italiani uno scenario diverso. I “professoroni” – da Gustavo Zagrebelsky a Stefano Rodotà – sono una calamità di retorica, ma quando sostengono che non si può cambiare la Costituzione a colpi di fiducia non hanno tutti i torti.



Siamo così di fronte ad un doppio corto circuito che si è verificato nelle aree politiche di destra e di sinistra. Nell’elettorato di centro-destra cresce l’orfanotrofio dei moderati. La nuova Forza Italia ha come unico alleato organico La Destra di Storace ed il vertice operativo è un gruppo “aziendal-familiare”, sveglio nelle nomine e nel consigliare rotture o accordi secondo la reazione dei mercati, ma sostanzialmente qualunquista e disinteressato a identità e prospettive nazionali. Unica iniziativa di rilievo è il “Dudù Act”.

Nel campo del principale partito di sinistra, anche qui, cresce un altro orfanatrofio: a cominciare da tutto il complesso delle “regioni rosse” che si trova oggi in mano a una leadership ex democristiana o comunque in soluzione di continuità con quella che fu “la ditta” di D’Alema e Bersani. A furia di “rottamare” è un intero gruppo dirigente che è uscito di scena per far posto a new entry molto promettenti, ma che si muovono come un diligente “staff” del leader. 

Da una parte il partito “aziendal-familiare” e dall’altra il partito-“staff”. All’elettorato si offre come certezza il cosiddetto carisma, la celebrità, il “one man show”. Di fronte a ciò l’orientamento astensionista ha, in particolare, due ragioni: la prima è il non sentirsi rappresentato da uno dei principali partiti, la seconda è il sospetto di inconcludenza delle politiche praticate dai principali partiti. L’attrattiva delle liste minori è costituita da simpatie, nostalgie, rabbie o posizionamenti “di nicchia”, ma il grosso dell’elettorato astensionista può essere scosso solo dai partiti maggiori.

Oggi in entrambi i campi, sia Renzi sia Berlusconi, si selezionano dirigenti e personalità di governo al motto “non c’è bisogno di esperienza politica”. È un “casting” nel segno del nuovismo non molto lontano da quello di Beppe Grillo. In conclusione l'”antipolitica” di Renzi, Grillo e Berlusconi hanno in comune – nella selezione dei propri dirigenti e candidati – la prospettazione della politica (ovvero dell’adesione alle proprie leadership) come ultimo “ascensore sociale” rimasto in Italia.