A grandi passi ci si avvicina all’appuntamento elettorale europeo e, parafrasando Mao, “grande è la confusione sotto il cielo”, ma “la situazione” è lungi dall’essere “eccellente”. L’atteggiamento che oggi si registra verso l’euro e l’Europa da parte delle forze politiche italiane può sintetizzarsi in queste tre posizioni.



Gli “Euro-Unni”. Coloro i quali, con in testa il Movimento 5 Stelle, ritengono che poiché vi è (all’evidenza) un difetto genetico nell’euro la soluzione sia distruggere l’organismo imperfetto. Radere al suolo quanto nato storto e possibilmente passarci il sale sopra. In sostanza da una ovvietà che nessun economista compos sui ha mai negato, vale a dire che l’euro è nato zoppo perché incompleto e così non sarebbe andato lontano, se ne trae la conseguenza che andrebbero rovesciati cinquanta e passa anni di faticoso processo integrativo senza guardare troppo per il sottile alle pesantissime conseguenze che, a noi più di altri, ne deriverebbero.



Come insegna lo storico di Princeton Harold James, non esiste alcun precedente in grado di dimostrare che un’unione monetaria sia in grado di reggere a lungo senza un’unione politica. Durante le varie fasi della creazione della moneta unica questo fatto era ben noto agli storici quanto agli economisti ed ai più avvertiti politici. Alcuni tra questi ultimi – Helmut Kohl per citarne il più noto – consideravano l’unione monetaria sostanzialmente come una tappa verso l’unione politica. Non serve il genio economico pentastellato o di altri illuminati professori che ne forniscono l’ideologia, per evidenziare tale “peccato originale” dell’euro. Ad esempio gli economisti americani, in gran numero, ci avevano da subito messo in guardia dal pericolo. Nel 2001, uno degli esponenti di quella comunità, Rüdiger Dornbusch, nel frattempo scomparso, raggruppava gli atteggiamenti americani nei confronti dell’euro in tre diverse tipologie: “Non può succedere”, “È una pessima idea” e “Non può durare”. Il punto è però passare dall’ovvietà della diagnosi alla terapia, possibilmente senza stroncare il malato.



Gli “Euro-burocrati”. Sono coloro figli dell’idea che in fondo le cose progrediscono, comunque, nella direzione giusta e che dunque, in fondo, vanno bene così. Che all’Europa unita ci si arriverà  per piccoli passi. Magari inconsapevoli e passando attraverso varie crisi che per Jean Monnet erano il punto di partenza del metodo. “Ho sempre pensato che l’Europa verrà costruita attraverso le crisi e che sarà la somma delle soluzioni date a queste crisi” scriveva. È l’idea “funzionalista” che ha fatto perdere di vista il disegno più grande dei padri fondatori e ci ha dato quest’Europa, “leviatano intergovernativo”, che non fa battere il cuore a nessuno. La scommessa (vinta) sottesa ai tre trattati originari (Ceca, Cee, Ceea) confidava in una unificazione più ampia del continente, rispetto ai patti sottoscritti, puntando sull’effetto “trascinamento” dell’economia sull’integrazione dei popoli. 

L’unità politica sarebbe arrivata comunque. Una sorta di prodotto della provvidenza economica, una virgiliana forza del destino la quale “volentem ducunt et nolentem trahunt”. L’obiettivo dell’unificazione, scriveva sempre Monnet, “potrà essere raggiunto attraverso passi successivi ognuno dei quali nascosto sotto una veste e finalità meramente economica ma che alla fine ed ineluttabilmente porterà alla federazione”. I funzionari di Bruxelles continuano a pensarla così. Sbagliando.

La profezia infatti non si è inverata e quel metodo è oggi il primo ostacolo al raggiungimento dell’obiettivo di un’Europa politica. Quella trionfale avanzata, sulle ali del benessere portato al continente, si è arenata alla prima vera crisi proprio perché manca un meta che oggi giustifichi sacrifici e solidarietà. Che li inquadri in un progetto più grande e condiviso. Ciò che occorrerebbe fare nei prossimi mesi è “tecnicamente” arcinoto: una vera unione bancaria (migliore di quella che si profila oggi, non decisiva del problema del perverso intreccio tra debiti sovrani e bancari), la totale o parziale collettivizzazione dei debiti nazionali, un bilancio federale con funzioni redistributive e perequative tra le diverse aree del continente. Ma questi non sono fenomeni neutri,  in cui tutti vincono allo stesso modo come era al tempo di costruire e manutenere un mercato. Implicano significavi trasferimenti fiscali. Travasi importanti di ricchezza da una tasca all’altra dei cittadini del continente. Serve in parole povere un approccio politico. Un orizzonte territoriale europeo e l’individuazione di un destino comune senza il quale mai la Germania si sarebbe accollata gli imponenti sacrifici economici dell’unificazione della sua parte est.  

Gli “Euro-romantici”. Specularmente opposti agli “euro-burocrati”, gli euro-romantici sono coloro che hanno ben chiaro l’approdo federale quale idea a cui aspirano, ma la declinano in una sorta  di giaculatoria all’Europa, non a caso dea pre-ellenica. Per essi domani e magicamente, attraverso la modifica dei trattati, si arriverà ad uno stato federale con 28 stati. Ma coltivare l’idea che attraverso l’art. 48 del Trattato di Lisbona (quello che prevede la convocazione di una convenzione e la ratifica unanime a 28 membri) si possa giungere ad una Europa federale con tutti gli attuali stati membri è pura follia. Vuol dire peraltro non avere imparato nulla dagli errori di questi anni, perpetrati proprio in nome dell’idea europea. Pensare che la stessa si possa fare senza, ed in alcuni casi, contro il popolo. 

Gli “Euro-realisti” sanno bene che vi sono comunità, attualmente parte dell’Eu, che hanno dell’Europa una idea affatto diversa dalla nostra. Le posizioni “euroscettiche” di Cameron in Inghilterra o del governo danese non sono frutto di impuntature individuali. Non occorrono i sondaggi sull’Ukip (UK Indipendence Party) in Gran Bretagna, basta aver fatto qualche viaggio da quelle parti. 

Non è un caso che l’Inghilterra non entrò sin dalla sua costituzione nella Cee, che considerava un progetto (un mercato comune e qualche sparuta politica finanziata insieme) troppo ambizioso contrapponendovi l’Efta (una pura area di libero scambio). I fatti successivi le diedero torto e fu costretta a bussare alle porte della Cee nel 1961 per esservi ammessa, dopo essere stata posta in quarantena per 10 anni da De Gaulle, nel 1972. Accadrebbe la stessa cosa se un progetto federale avesse successo con un più ristretto numero di paesi. Purché sappiano dove andare, non chiedano permesso promuovendo un lucido atto di realismo politico a cui far seguire nuovi trattati fuori dall’unanimismo a 28 di Lisbona (cosa già avvenuta con il “Fiscal Compact”) e ci vogliano  andare davvero.

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