Gli italiani vanno alle urne europessimisti, euroscettici e, in larga misura, anche anti-europeisti: è la prima volta in assoluto, anche se il mutamento dell’opinione pubblica era già chiaro da tempo. Il sondaggio Pew pubblicato lunedì 12 maggio registra non solo un umore malmostoso, ma un clamoroso voltafaccia. Nel 2012 ancora il 59% degli italiani intervistati si dichiarava favorevole, sostanzialmente in linea con la media (60%). Non più quell’entusiasmo un po’ ingenuo di una volta, ma pur sempre una netta maggioranza, anche se il Paese aveva appena superato il suo annus horribilis durante il quale stava per andare in bancarotta trascinando con sé la moneta unica. Oggi i favorevoli sono 46 su cento, con una perdita di 13 punti. La stessa media europea è scesa a 52, ma siamo nettamente al di sotto. Non solo. L’Italia è l’unico Paese in cui l’opinione è diventata più negativa negli ultimi due anni. Persino in Grecia si registra un leggero miglioramento. Come spiegare questo risultato clamoroso sul quale non si è discusso a sufficienza?
La crisi e l’austerità sono le ragioni principali. Ma non basta: greci e spagnoli stanno peggio di noi, eppure il loro umore è decisamente migliore. Sarà perché loro sono stati aiutati dall’Unione europea, anzi salvati, sia pur a caro prezzo, mentre noi no. Noi abbiamo pagato i costi senza incassare i benefici. Può darsi; tuttavia sono stati i nostri governi, a cominciare da quello di Silvio Berlusconi, a rifiutare la ciambella del Fondo monetario internazionale. A differenza dalla Spagna, poi, le banche italiane si sono leccate le ferite con pochi aiuti da parte del Tesoro italiano (l’eccezione è il Monte dei Paschi con i Tremonti e poi Monti bonds) e con la liquidità fornita dalla Bce. Dovrebbe essere motivo di orgoglio, eppure i politici non lo hanno mai rivendicato né agli occhi degli eurocrati e degli altri governi, né di fronte ai cittadini elettori.
Ma per spiegare l’euroscetticismo italiano bisogna guardare anche a come il Paese è stato trattato dai suoi partner trasformatisi in implacabili avversari, se non in qualche caso addirittura persecutori. Bisogna leggere le corrispondenze di molti giornalisti stranieri. Ascoltare le indiscrezioni dei diplomatici che hanno partecipato agli scontri a Bruxelles. Esaminare ricostruzioni come quelle del Financial Times o i ricordi di Tim Geithner, il segretario al Tesoro della prima Amministrazione Obama (per citare i due esempi più recenti).
Non emerge mai un atteggiamento comprensivo da parte dei politici tedeschi e francesi, che si sono arrogati il titolo di sovrani dell’Unione europea. Solo gli americani hanno dato una mano. Lo avranno fatto per i loro interessi, ma ogni volta che l’Europa cade nella polvere, dilaniata dai suoi conflitti interni, tocca agli Stati Uniti correre in soccorso. Quanto all’euro, i ricordi di Geithner lo dicono chiaramente, è stato salvato con il discorso del 26 luglio 2012 (“whatever it takes”) da Mario Draghi che ha agito di propria iniziativa sotto sollecitazione americana, senza consultare Angela Merkel.
Dunque, ci sono ragioni in abbondanza, e buonissime ragioni, per non fidarsi più dell’Unione europea e dei paesi che hanno espropriato ogni parvenza di potere collettivo, ogni idea di cooperazione, sia ristretta che allargata. Ma a questo punto che cosa si può fare? È sensato sciogliere questa combriccola scriteriata che non riesce a vivere senza dilaniarsi? Ha senso farlo oggi che si profila una nuova minaccia collettiva in terra europea per la rottura ormai inevitabile con la Russia?
Curioso che nel dibattito elettorale nessuno abbia neppure evocato l’ombra del Cremlino. Si fa finta di credere che si tratti di una crisi locale e passeggera, mentre sta cambiando in men che non si dica il paradigma della sicurezza. Il capo dei servizi segreti svedesi non più tardi della scorsa settimana ha lanciato l’allarme sull’aumento dello spionaggio russo nel suo Paese e ha detto chiaramente che la Svezia si sente in pericolo. Il ministro degli Esteri, Carl Bildt, un moderato sotto tutti i punti di vista, ha chiesto un aumento delle risorse e degli uomini per l’esercito svedese. Ma un clima del genere si sente nei paesi baltici, nella Repubblica ceca, per non parlare della Finlandia. Tutti paesi dell’Unione europea, alcuni membri della Nato altri no. Eppure in Italia si fa finta di niente e si parla d’altro.
I candidati al Parlamento europeo, fino a che punto sono consapevoli che si troveranno di qui a poco a prendere decisioni gravi, difficili, non economiche questa volta, ma politiche e militari? La nostra impressione è che non se ne rendano affatto conto. E abbiamo l’impressione (ma l’approfondiremo) che nemmeno i due leader degli schieramenti principali, cioè dei popolari e dei socialisti, abbiano idee e proposte adeguate. Esamineremo i programmi sia di Jean-Claude Juncker, sia di Martin Schulz, prima di arrivare a conclusioni affrettate. Per il momento, vogliamo sollevare tre questioni.
La prima riguarda la sicurezza in senso stretto. Non sarà la nuova Guerra fredda, ma il paradigma è cambiato. Non si tratta più di fronteggiare un nemico extraterritoriale (sia pur con propaggini interne) come il fondamentalismo islamico, ma di stabilire un confine sia pur aperto e flessibile. È il ritorno del limes che richiede un’autorità in grado di proteggerlo, autorità politica e militare. Quest’ultima va demandata alla Nato, l’unica ad avere le forze e le capacità di farlo, anche se alcuni paesi dell’Unione non ne sono membri? Occorre creare un nocciolo europeo coordinato con la Nato? O una geometria variabile sul piano militare? Al momento non si sa.
Ciò introduce il secondo punto: la politica estera. È ormai chiaro che ci vuole quel famoso numero di telefono a Bruxelles che Henry Kissinger cerca invano dagli anni ‘70. Fuor di metafora, occorre una figura importante e autorevole che rappresenti una politica estera europea e parli con voce unica e rispettata, in grado di condurre una diplomazia intelligente che è sempre la risorsa migliore per evitare un conflitto aperto e trovare soluzioni razionali alle crisi. Ma per una buona diplomazia l’astuzia della volpe non basta se non è sostenuta dalla forza del leone.
Un Paese, un territorio, è tanto più sicuro quanto più è prospero. Dunque, non solo la ripresa della congiuntura economica, bensì la prosperità in senso ampio deve diventare la linea guida fondamentale dell’Unione europea. Ciò implica una politica fiscale comune con un bilancio europeo degno di questo nome. E non basta ancora. Ci vogliono investimenti nell’industria e nei servizi. Ma la priorità assoluta, oggi, riguarda l’energia. Non saremo liberi se non saremo sicuri dei nostri approvvigionamenti, ciò implica di ridurre la dipendenza e sganciarsi dalla Russia, richiede una scelta chiara e un impiego enorme di risorse, uomini, infrastrutture. L’unione energetica è diventata ancor più importante di quella bancaria. E qui davvero non si può dire ciascun per sé.
A questi tre problemi di fondo debbono rispondere sia gli europeisti, sia i neonazionalisti. Sono nel programma delle istituzioni europee che usciranno dalle urne il 26 maggio? La domanda è chiaramente retorica, ma per il momento lasciamo aperta la risposta.