L’incipit delle Linee guida per una Riforma del Terzo Settore mi sembra già una scelta di campo nella valutazione del valore (sociale ed economico) del Terzo Settore (forse bisognerebbe incominciare a introdurre una definizione del tipo: Settore delle imprese sociali non profit, in linea con l’approccio del riconoscimento dell’assetto civile “tripolare” composto da impresa sociale non profit, impresa “sociale profit”, azienda pubblica). Infatti, la prima considerazione è che il Terzo Settore rappresenta un’Italia generosa, ma anche laboriosa, e per essere tale deve affinare le proprie capacità di imprenditorialità sociale con tutti gli strumenti utili di gestione e organizzazione che incrementano l’efficacia e l’economicità.



Fra tutte le linee guida mi soffermo su quella inerente il “far decollare l’Impresa sociale” (punti 9, 10, 11, 12, 13, 14, 15). Bisogna riconoscere che le imprese sociali sono imprese intese come aziende di “produzione” non profit che devono riprendere la linea di definizione e di concettualizzazione condivisa a livello internazionale (la sintesi è a livello Ue con il riconoscimento dell’economia sociale come base di sviluppo economico dell’Europa). È ormai scontato che l’impresa sociale è l’insieme della dimensione economico-imprenditoriale e sociale.



Questa definizione di impresa sociale, per l’esigenza di essere minimo comun denominatore a livello internazionale, prescinde da specifiche forme giuridiche e si esplicita come soggetto privato e autonomo (con gradazioni diverse) dalla Pubblica amministrazione, con propria personalità giuridica. Essa svolge attività produttive secondo criteri imprenditoriali (continuità, sostenibilità, qualità, economicità, autosviluppo, efficienza, efficacia operativa) e persegue, a differenza delle imprese convenzionali, un’esplicita finalità sociale che si sostanzia nella produzione di benefici diretti a favore di un’intera comunità o di soggetti svantaggiati o deboli.



Si può notare come tutte le caratteristiche sopraindicate hanno una valenza di “potenzialità” definitoria (aperte al dinamismo delle ridefinizioni progressive) e siano utili a creare uno sviluppo costante sia in termini di azienda singola, sia in termini di settore delle imprese sociali non profit. Le imprese sociali “ex lege” (L.118/05, dlgs.155/06) sono prodromiche di una forma “ibrida” di impresa che ha finalismo sociale e valoriale nonché economico. L’imprenditorialità sociale fa emergere che i settori economici in cui operano le imprese sociali, cioè quello dell’assistenza sociale, della sanità, dell’assistenza socio-sanitaria, dell’educazione, istruzione e formazione, della tutela dell’ambiente e dell’ecosistema, della valorizzazione del patrimonio culturale, della ricerca e del turismo sociale, della formazione universitaria e post-universitaria, della formazione extrascolastica, dei servizi strumentali alle imprese sociali, si devono ampliare a “nuove materie di particolare rilievo sociale” come il commercio equo e solidale, l’housing sociale, l’inserimento lavorativo dei disoccupati, il microcredito.

L’esistenza del profitto/utile è quindi strumentale al raggiungimento dei fini stessi dopo che comunque siano state garantite le condizioni di aziendalità dell’impresa sociale. In altri termini, l’obiettivo dell’impresa sociale stessa non è la massimizzazione assoluta del profitto e la sua distribuzione nel rispetto del vincolo di aziendalità, ma la massimizzazione relativa e funzionale del profitto, sempre nel rispetto di un equilibrio economico-finanziario a valere nel tempo.

Questo implica il coinvolgimento di individui che credono nella formula imprenditoriale non profit e, pertanto, vengono retribuiti in modo coerente rispetto ai livelli delle remunerazioni del mercato specifico dei settori in cui operano le imprese sociali (e di quelle compatibili con la fase del “ciclo di vita” dell’impresa sociale). Si devono coprire i costi di produzione “in un’ottica di utile fisiologico indispensabile per il dinamismo imprenditoriale dell’impresa sociale”.

In queste linee guida si esplicita la proposta di modifica del d.lgs.155/2006 (su iniziativa degli on.li Bobba e Lepri) che si dovrebbe concretizzare in queste modifiche:

1- le imprese sociali possono distribuire utili in misura limitata e senza istanze speculative. Questa opzione permetterebbe di attrarre capitale di rischio;

2- le cooperative sociali sono imprese sociali di diritto, senza modifiche statutarie e senza modifica della denominazione;

3- tutte le imprese sociali, di diritto, sono onlus e quindi godono del regime fiscale conseguente indipendentemente dalla forma giuridica adottata;

4- obbligatorietà del bilancio sociale con modifiche semplificative;

5- a fronte delle caratteristiche della proposta normativa inerenti le organizzazioni si sancisce l’obbligatorietà dell’assunzione dello status di impresa sociale.

Un’ulteriore proposta è quella che integra il punto 11 (“ampliamento delle categorie di lavoratori svantaggiati”) con il punto 12 (“previsione di forme limitate di remunerazione del capitale sociale”). La proposta realistica, per “dare gambe” a questi punti, è quella di applicare la formula dell’impresa sociale “ex lege” alle politiche attive nei confronti della disoccupazione. Infatti, nell’azione congiunta fra non profit, profit e pubblico, in una dimensione di “filiera sussidiaria aziendale e orizzontale”, si può intervenire, per esempio, sulle Pmi in crisi per il tramite dell’attivazione di imprese sociali non profit, intese come “rescue company”.

Con questo modello si attiva un’impresa sociale ex lege (tendenzialmente srl senza distribuzione di utili) che svolge il ruolo di holding ed è di proprietà dei dipendenti in crisi occupazionale. Questa impresa sociale sarà proprietaria di una srl tradizionale, quindi con distribuzione di utili il cui capitale è conferito dai lavoratori, fondazioni, enti pubblici, investitori privati, fondi (si veda il punto 15 “promuovere il Fondo per le imprese sociali e sostenere la rete di finanza etica”), che immettono capitali per raggiungere risultati di profitto da dividere seppur con un “pay-out ratio” basso (redditività “cappata”) attuando il punto 12 che prevede “forme limitate di remunerazione del capitale sociale”.

La governance in questo modello è distribuita in modo equo e considera il ruolo della holding nella sua funzione di ammortizzatore di eventuali spinte speculative e opportunistiche di investitori privati, ma garantisce anche un’alta attrattività per gli investitori, creando quindi le condizioni per lo sviluppo di un capitale di investimento di start- up.

Una riforma del Terzo Settore che accoglie il valore imprenditoriale delle imprese sociali non profit in un’evoluzione di ruolo che supera l’antinomia fra economico e sociale.