Per la prima volta le elezioni europee non serviranno solo a eleggere i membri del Parlamento, ma anche a fornire un’indicazione per il presidente della Commissione, un passo avanti verso una maggiore democrazia. Altri se ne potranno e dovranno fare, ma almeno è possibile confrontarsi su un volto e un nome anche per verificare se rispetterà le promesse. I candidati più importanti sono tre: il lussemburghese Jean-Claude Juncker per il Partito popolare, Martin Schulz per il Partito socialista e Guy Verhofstadt per il Gruppo liberale.



La vera competizione è tra i primi due, con i popolari in vantaggio. Anche se le novità vere verranno dagli outsider, a cominciare da Marine Le Pen in Francia e non solo (perché la Lega Nord è alleata con il Front National), Geert Wilders in Olanda, Nigel Farage in Gran Bretagna, Beppe Grillo in Italia, Alexis Tsipras (in Grecia con propaggine italiana). Nessuno di loro può (né vuole) prendere una posizione potremmo dire di governo. Saranno la grande anche se variegata opposizione all’euro e, nel caso britannico, all’Unione europea. Ma faranno anche da cassa di risonanza per il vasto moto di scontento e protesta contro il modo in cui l’Ue ha gestito la crisi, soprattutto quella dell’euro scoppiata nel 2010 con il collasso della Grecia. Se è così, nessuno dei magnifici tre ha molto di cui vantarsi.



Juncker rappresenta bon gré mal gré l’ortodossia renana che domina tra i popolari, vista la straboccante influenza dei cristiano-democratici tedeschi. È stato al vertice dell’Eurogruppo, il club dei ministri economici e finanziari e nel 2008 fece coppia con Giulio Tremonti nel proporre l’emissione di eurobond. Una buona idea che doveva essere accompagnata da un coordinamento delle politiche fiscali e da una politica monetaria espansiva. Dopo il no della Germania, la proposta è stata affossata. Anche adesso che con il Fiscal compact è passata la linea ortodossa in tema di bilanci pubblici e con la svolta di Mario Draghi la Bce si muove in modo più flessibile, resta sbarrata la strada degli eurobond, strumenti per finanziare in modo condiviso e solidale non i vecchi debiti pubblici, ma il nuovo fabbisogno dell’Eurolandia. Non solo, nell’infausto periodo Sarkozy-Merkel, Juncker ha fatto da mediatore, senza nessun colpo d’ali, quindi restando succube della coppia che ha combinato tanti pasticci, come dimostrano le memorie di Tim Geithner, il segretario al Tesoro americano.



Non si distingue per davvero nemmeno il belga Verhofstadt. Ora dice che Manuel Barroso “ha sbagliato perché ha dato troppo potere alla Merkel”. Senza dubbio è vero, ma tutti lo hanno seguito nell’errore. Nessuno nega il pedigree europeista dell’ex primo ministro belga che nel 2010 ha fondato insieme al Verde Daniel Cohn-Bendit il Gruppo Spinelli per il rilancio dell’integrazione europea. I liberali hanno idee più innovative dei popolari e dei socialisti per quel che riguarda la concorrenza. Ma le barriere alla creazione di un vero mercato interno europeo in tutti i campi vengono da francesi e tedeschi che si sono auto-attribuiti l’etichetta di “motore europeo”. Chi crede nell’Unione europea e nel mercato non ha mai davvero fatto niente per spezzare questo duopolio politico neo-protezionista.

Il tedesco Schulz per la verità è l’unico ad aver criticato (se non proprio condannato) l’ossessione per l’austerità che ha contraddistinto il suo Paese. Ma ha alcuni punti deboli. Sul piano personale è senza dubbio espansivo, quasi ciarliero, ne dice tante, anche troppe. Ha polemizzato ad ampio spettro: con Silvio Berlusconi fin dal 2003, con Jean-Marie Le Pen, ma anche con il progressista Cohn-Bendit che a suo parere era stato troppo duro con Barroso. Eppure, si stenta a trovare la sua impronta su proposte chiave nella vita dell’Ue. La seconda debolezza riguarda la famiglia politica: i socialisti non si sono distinti in questi anni come portatori di una politica economica e sociale diversa. Geithner ricorda come l’Amministrazione Obama abbia insistito a lungo affinché l’Unione europea rispondesse alla crisi dell’euro non con una stretta generalizzata, ma con politiche mirate e, soprattutto, con un’espansione della domanda da parte della Germania. Ebbene la Spd, il partito socialdemocratico tedesco che resta il nerbo del gruppo socialista in Europa, non ha mai dato sponda alla linea americana né si è mai fatto promotore di proposte in tal senso, con l’eccezione del salario minimo nelle ultime elezioni. A parte la modestia della proposta, è come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. Infine, c’è una debolezza chiamiamola pure nazionale. Con queste premesse, come mettere a capo della Commissione un politico di quel Paese che viene ormai identificato con i disastri dell’austerità imposta perinde ac cadaver?

Anche per questo, sta emergendo un’ipotesi alternativa, soprattutto se nessuno di loro avrà consensi così vasti da fugare ogni dubbio. L’idea è di candidare Christine Lagarde, attuale capo del Fondo monetario internazionale ed ex ministro delle Finanze durante il primo mandato di Sarkozy. A suo favore c’è non solo il genere (l’onda è girata in favore delle donne in politica), ma il fatto che nel 2008, quando scoppiò la grande crisi, aveva proposto una soluzione in sintonia con quella adottata dagli Stati Uniti (un fondo europeo di intervento). Al Fmi, anche grazie al capo economista Olivier Blanchard, ha avviato una riflessione sugli eccessi e gli errori del rigore teutonico, non per rifiutare il risanamento dei bilanci pubblici e la riduzione dei debiti, ma per farlo rilanciando l’economia e non deprimendola ulteriormente. Insomma, bastone e carota non solo bastone. Madame Lagarde ha dalla sua carattere ed esperienza internazionale anche al di là dell’Atlantico, ma non si può dire che sia una scelta innovativa.

È il maggior punto debole di questa campagna per le europee che cade nel momento di più basso consenso per l’Unione, quando le ferite bruciano e la crisi non è ancora superata. Bisognava cambiare anche i vecchi leader che hanno svolto un ruolo di primo piano, e quanto meno ambiguo. Non una “rottamazione” demagogica e populista, ma un rinnovamento generazionale e politico, energie fresche non compromesse con la passata gestione. C’è chi dice: va bene, ma dove stanno? Perché non sono emersi i volti della nuova Europa? Domande legittime, ma la verità è che non sono stati nemmeno cercati, i vecchi potenti si sono difesi anche a rischio di finire nel cimitero degli elefanti.

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