La ragione di fondo della crisi dell’idea stessa di Europa è che il nostro continente non riesce a sentire sé stesso come comunità. Ha smarrito il senso dello stare insieme, il vincolo unificatore che è il presupposto della libertà e che conferisce alle libertà una direzione, un senso di marcia. Paradossalmente il Muro di Berlino e la competizione con l’avversario sovietico ci imponevano di misurarci sui valori, sulla solidarietà, sui vincoli che ci facevano sentire il dovere di costruire una società migliore. Lo schianto di quell’avversario ci ha liberati dalla necessità della vita buona, dalla consapevolezza dei limiti dei nostri desideri. Non competiamo più per la libertà da, ma per la libertà di. È prevalsa una sorta di “corsa ai diritti senza doveri” che non ha effetti emancipatori, alimenta conflitti e finisce col dipendere dai rapporti di forza.



La politica dei diritti senza doveri fallisce come politica democratica perché contribuisce a creare una società il cui progetto globale sfugge ai cittadini. Amplia certamente le prerogative dell’individuo nella società. Ma paradossalmente, all’ampliamento delle prerogative individuali corrisponde l’aumento dei conflitti; alla fine sfugge la coerenza complessiva di questo insieme di individui privi di vincoli reciproci, in perenne lotta per i propri diritti. La società diventa inintelligibile. I diritti cessano di essere modalità di progresso civile; diventano armi che cittadini isolati gli uni dagli altri agitano contro altri cittadini in nome del proprio interesse o del proprio desiderio. L’impero dei diritti senza doveri trascina con sé processi di giuridificazione della vita frutto, come scrive Julián Carrón ne Europa 2014. È possibile un nuovo inizio?, dell’aspettativa che un ordine giuridico risolva le contraddizioni dell’esistenza liberandoci dalla fatica di individuare i fondamenti della vita stessa. In questa tensione tra il desiderio e il diritto trasferiamo il potere di scelta alla tecnocrazia dei giuristi e ciascuno perde il valore dell’altro, concepito non più come un bene ma come una minaccia per le proprie attese.



Don Luigi Giussani aveva parlato dell’essere collettivamente soli nella società contemporanea.  Questa solitudine deriva dall’assenza o dal rifiuto di legami capaci di limitare e di mettere in relazione gli uni con gli altri in nome della dignità umana e di un destino comune. Lo sgretolamento dei vincoli che permettono a una comunità di essere tale è dipesa da una progressiva neutralizzazione del politico a favore del primato dell’economico. Le conseguenze sono state due. I diritti sono stati trattati come se fossero beni materiali, cumulando gli uni agli altri, dimenticando la lezione di Ratzinger, ricordata da Carrón, secondo la quale nell’ambito delle scelte etiche non c’è possibilità di addizione, di accumulo, perché la libertà è sempre nuova e deve sempre farsi carico delle proprie scelte. La logica economica, inoltre, ha assunto funzioni di guida in molti ambiti prima regolati politicamente o sulla base di convenzioni.



Nella vita privata prende sempre più piede un agire orientato al successo, al profitto e al desiderio incurante delle conseguenze di ciascuna scelta sulle relazioni umane e sui destini della comunità. La convenienza economica diventa la misura di tutte le cose; un’Europa disumanizzata è destinata a spezzarsi in mille frammenti. 

La messa a fuoco di questo tema da parte di Carrón aiuta a capire la grande difficoltà dell’Europa dei nostri giorni e il senso stesso del conflitto che l’attraversa, tra chi la considera uno spazio puramente economico e chi invece la vorrebbe come comunità umana. Bisogna rispondere a una domanda semplice: che cosa vuol dire essere europei oggi? Meglio: come si fa a recuperare all’Europa una dimensione di libertà fondata sulla responsabilità, sull’appartenenza a un destino comune, sull’equilibrio tra diritti e doveri? È in gioco la capacità di costruire relazioni, di parlare con l’altro, di riconoscere la sua dignità, di superare la pura dimensione economica. Perciò è giusto parlare, seguendo il pensiero di Carròn, di una riumanizzazione dell’Europa e della sua cultura come obbiettivo di coloro che si misurano senza arroganza attorno al tema della verità.