La prima sorpresa arriva dall’Olanda, se gli exit polls dicono il vero: Geert Wilders non solo non vince, ma arretra. Tuttavia le proiezioni pubblicate dal Wall Street Journal indicano nell’Unione europea un aumento enorme dei deputati che non fanno parte di nessuna delle famiglie politiche tradizionali. Quasi ovunque sarà a spese dei popolari (anche in Germania dove pure restano nettamente in testa), mentre i socialisti vanno nell’insieme un po’ meglio. Per quel che riguarda l’Italia, la lista affiliata al partito socialista, dunque il Pd, dovrebbe prendere 27 seggi (+4), le liste del partito popolare 20 (-14), i non allineati, quindi in sostanza il M5S 19 (+17), i liberali 4 (-4), l’estrema sinistra 3 (+3), i verdi zero, i centristi zero (-4), la destra zero (-2). Dunque, Alexis Tsipras primo in Grecia, Marine Le Pen prima in Francia, Nigel Farage in cima a una Gran Bretagna da sempre euroscettica nella testa e nelle budella. Beppe Grillo vittorioso in Italia. E poi via via tutti gli altri arrabbiati di successo.
I grandi giornali lanciano “l’allarme populismo” (La Stampa). Ma è populismo questo? Syriza è un movimento di sinistra, più a sinistra dei socialisti e degli ormai spenti comunisti. Il Front National è decisamente di estrema destra, anche se Marine ha spento i furori fascistoidi del padre. Lo Jobbik, il Movimento per una Ungheria migliore, è nostalgico del nazionalsocialismo. Lafarge né l’uno né l’altro, interpreta quel mondo fatto di pub, birra rossa, pudding e cottage nella brughiera che fece grande l’Inghilterra egemone e si è tramutato in disastroso declino imperiale, dopo la Prima guerra mondiale. Wilders, nell’Olanda culla della liberal-democrazia, rappresenta la crisi dell’economia del benessere nei suoi valori e nei suoi risultati economici. Dunque, le espressioni più vocianti e robuste della nuova onda anti-europeista sono figlie di famiglie politiche estremiste, ma ben note o del libertarismo isolazionista anglo-olandese.
Il vero populista, nel senso proprio, moderno, anzi americano, del termine, è il Movimento5Stelle. Nasce senza ideologia (se non quella smanettona della rete in versione Casaleggio), pesca a destra, a sinistra o al centro, in seguito a una rivolta tutta italica contro la Casta politica (lanciata ed eccitata nell’ultimo decennio da quella che molti grillini chiamerebbero la stampa dei padroni), nutrita dalla grande recessione e dalle politiche di austerità perinde ac cadaver. L’anti-euro e l’anti-Europa viene dopo, si tratta in qualche modo della coda retorica contingente. La sostanza del grillismo è italica e risiede altrove.
Dunque, l’esito del voto europeo di domenica andrà letto in modo sfaccettato senza chiavi troppo uniformi e superficiali. Ma una cosa si può già dire: esiste un minimo comune denominatore ed è il fallimento politico della classe dirigente che ha governato l’Europa in questi anni. La vera crisi, più profonda e duratura della crisi finanziaria, di quella produttiva, di quella del debito (e via via tutti i mostri che si sono presentati in questi anni) è una crisi di leadership. Se mi è consentito (semel in anno) un autoriferimento, è questa la tesi di fondo del libro che ho pubblicato nel 2011 (“Bolle, balle e sfere di cristallo”) e i lettori de Il Sussidiario sanno quante volte nelle mie note periodiche ho insistito su questo punto.
C’è una sola istituzione europea che, pur con i suoi limiti e le sue contraddizioni, è sfuggita alla regola: la Banca centrale guidata da Mario Draghi. I monetaristi ortodossi la potranno criticare per essersi fatta prendere la mano o per essersi americanizzata (è la posizione dei tedeschi), ma non si può dire che non abbia agito spingendo fino al limite massimo il suo mandato: garantire la stabilità monetaria e finanziaria (un binomio da non dimenticare). In ogni caso, Draghi non può essere accusato di non aver governato. Nel suo caso la leadership c’è e si è vista, basti ricordare quante volte ha agito a maggioranza, sia pur schiacciante, mettendo in un angolo la Bundesbank.
Nessun governo, invece, è stato all’altezza della situazione, tanto meno un qualsiasi partito politico. I popolari sono addomesticati dalla Cdu, l’azionista di riferimento. I socialisti si sono dissolti: la parabola francese dopo la fugace e futile vittoria di François Hollande ne è lo specchio. Quanto alla Spd, la socialdemocrazia tedesca, è una pallida ombra non solo del proprio mito, ma del più recente passato. I partiti italiani non hanno giocato nessun ruolo, messi a terra, anzi sottoterra, dalla crisi del 2010-2011, si sono arresi. Il Pdl si è frantumato, il Pd è stato rovesciato come un guanto dal ciclone Renzi (e vedremo dove andrà a parare), il tentativo di creare una formazione liberale centrista si è spento con il sogno politico di Mario Monti. Quanto a Grillo, è ancora un ectoplasma.
Il voto è nello stesso tempo un campanello d’allarme che può diventare una campana a morto se non si è capaci di cogliere il grido di dolore (diremmo con espressione risorgimentale). C’è qualcuno in grado di capire il messaggio? Non lo sappiamo e bisogna sempre evitare catastrofismi, sciocchi quanto inutili. La storia non si ferma e la politica non ammette vuoti. Il nuovo Parlamento europeo darà una spinta forte per superare le politiche di austerità, anche se nessuno ha presentato agli elettori una proposta chiara, articolata, convincente.
Lo sguardo più lucido sui guai dell’Europa viene da oltre Atlantico. Gli americani lo faranno per interesse, chi lo mette in dubbio, ma ci azzeccano. Il libro di Tim Geithner “Stress Test”, è stato letto finora solo per i riferimenti (senza dubbio esplosivi) alle manovre per far cadere Silvio Berlusconi nel 2011, ma l’ex segretario al Tesoro americano ricorda con arguzia quando alle riunioni dei G7 o dei G20 gli europei facevano i supponenti e dicevano: ma che cosa avete da insegnare voi che avete provocato la crisi dei subprime, ragazzini lasciateci lavorare. O il fervore da Vecchio Testamento in versione luterana dei vertici tedeschi, convinti che occorresse dare una punizione solenne ai peccatori del sud Europa. Con la Grecia, poi, hanno applicato il detto di Lenin: punirne uno per educarne cento. Certo, chi ha commesso errori (e tanto più imbrogli come i greci) deve pagare, ma a quale costo, anche a quello di trascinare tutti nel baratro? I tedeschi lo hanno fatto, badando però a mettersi al riparo, salvando le proprie banche con i quattrini di tutti i contribuenti europei, anche quelli dei paesi come l’Italia che non erano affatto esposti verso la Grecia, il Portogallo, la Spagna o l’Irlanda. Il che mette in dubbio la buona fede degli zeloti protestanti.
Il pragmatico approccio americano ha portato a salvare il salvabile con un impiego massiccio di mezzi (Geithner fa riferimento alla dottrina di Colin Powell applicata alla finanza) per poi ritirarsi a vittoria avvenuta, ma anche ad avviare cambiamenti forti nelle banche (una selezione stimolata, anzi persino guidata, dal governo) o nell’industria (per esempio, l’automobile). Adesso il problema è gestire bene la exit strategy; ci sono molti dubbi che ciò avvenga senza sussulti (sconquassi persino), ma siamo in una fase superiore dalla quale l’Unione europea, tutta, è ancora lontana, persino la Gran Bretagna che ha applicato ricette più simili a quelle made in Usa.
È vero, nemmeno Barack Obama ha sempre brillato, soprattutto nella politica estera e di sicurezza (Libia, Siria, Ucraina), anche perché si è illuso di poter lasciar fare agli europei che hanno combinato guai seri (come in Libia). Ma per quel che riguarda la crisi, è stato lui (insieme a Ben Bernanke, alla Federal Reserve e a Geithner al Tesoro) a tenere a galla la zattera della Medusa.
La lezione americana non riguarda solo la politica economica. Quando Geithner scrive a proposito di Berlusconi “non potevamo avere il suo sangue sulle nostre mani”, manda un messaggio chiaro di rispetto delle regole. Non che lo zio Sam non sia stato intrusivo, anzi invadente, in molte occasioni durante e dopo la Guerra fredda. L’esportazione della democrazia con le armi è una dottrina di per sé poco democratica. Tuttavia, quel che è avvenuto tra il 2010 e il 2011, ben cinque governi fatti cadere in pochi mesi (Irlanda, Portogallo, Grecia, Italia, Spagna) come pre-condizione per ottenere gli aiuti economici (anche se l’Italia ha avuto solo sostegni indiretti tramite la Bce perché sia Berlusconi che poi Mario Monti hanno rifiutato la carità pelosa della trojka), ebbene rappresenta un vulnus non sanato e non sanabile facilmente.
Il coltello continua a riaprire le piaghe doloranti e il risultato delle elezioni europee, se andrà come tutti prevedono, è anche la conseguenza di una classe politica che, incapace di esercitare l’autorità (anche nei confronti dei mercati che poi sono lo specchio finanziario del resto del mondo), è ricorsa a un autoritarismo incerto e grossolano. Il vero dramma è se non rimane nessuno in grado di raccogliere la protesta per trasformarla in proposta.