Il voto europeo non ha riflesso, se non in modo molto cauto e moderato, la profondità della crisi economica e morale in cui si trova l’Europa. Il Partito popolare europeo, è vero, perderà indubitabilmente un buon numero di seggi, ma se poniamo mente al fatto che, sotto la guida della sua componente austro-tedesca e nordica, è la cultura che porta la più pesante responsabilità sia per la politica deflazionistica della Bce, sia per l’ordonazionalismo politico esasperato, sia per aver reso senso comune il fatto che l’Europa sia sottrazione di sovranità invece che condivisione della medesima, come si è dimostrato recentissimamente in Grecia e ogni giorno nelle politiche dei commissari, ebbene, se tutto questo è vero, il Ppe non è stato penalizzato dagli elettori. Il suo candidato Juncker può orgogliosamente proporsi come Presidente della Commissione mortificando uno Schulz tanto incompetente e arrogante quanto incautamente nazionalista, come ha dimostrato nel corso della sua campagna elettorale, tradendo le stesse promesse pronunciate nella miserevole assise romana del Pse che l’aveva incoronato candidato.



Tutti gli analisti si stracciano le vesti per il successo degli euroscettici. Ma si tratta di questioni diverse e assai più complicate di quanto a prima vista non appaia. Diciamo in primis una cosa: che all’appuntamento di un euroscetticismo altamente consapevole dei destini dell’Europa, saldamente ancorato a una politica keynesiana continentale, con la riforma della Bce, il potere finalmente conferito in forma assoluta al Parlamento e non alle commissioni, ebbene il primo a mancare a questo appuntamento che avrebbe dato dignità all’euroscetticismo e tagliato le gambe ai neobonapartismi di destra emersi come funghi più o meno velenosi è stato il Partito sociale europeo. Non a caso è stato anch’esso penalizzato dagli elettori e in più forte misura di quanto non sia accaduto al Ppe.



Veniamo agli antieuropeisti e andiamo per ordine. Guardiamo prima fuori dell’Europa, cioè al Regno Unito dove non regna l’euro ma la sterlina e domina la Common law. Ebbene, i laburisti sono il primo partito e questo, se si pensa alle litanie pro Blair che dovrebbero essere salvifiche, è un buon segno perché Ed Miliband blairiano non è e ha rimesso insieme partito e Trade Unions ricostituendo una forte forza riformistica a cui, per esempio, il Pd italico potrebbe ispirarsi. I Tories sono il secondo partito. Avrebbero potuto assorbire molti voti all’Ukip di Farrage se solo avessero avuto un altro leader meno stolido di quel “bamboccione” di Cameron. Qui la vera notizia è il crollo dei liberali, del resto già annunciato da tempo.



Ma veniamo in Europa. E qui naturalmente spicca la straordinaria affermazione della Le Pen. Se si legge bene il suo programma, se si studiano i profili dei suoi candidati come ha fatto bene la stampa francese, che in Italia non legge nessuno perché tutti sanno solo la lingua di Topolino, si vedrà che Marine ha continuato nella linea che aveva inaugurato nelle recenti elezioni amministrative: forti valori nazionali, sia nella politica economica che nell’immigrazione, basta con l’antisemitismo e il razzismo. Paradossalmente sono gli stessi nuovi valori del povero Hollande, che è ben interpretato dalle fantastiche caricature che gli dedica il “Canard Enchainè”, con la recente conferma del ministro Montebourg all’economia, che invoca il ritorno alla Regie Nationale, e la nomina del nuovo primo ministro Valls che ha la faccia e il manganello duro verso immigrati e delinquenti. Naturalmente gli elettori, soprattutto sulle questioni della sicurezza e dell’immigrazione, hanno preferito la Le Pen a Valls. Il crollo dei post-gaullisti non si attendeva. Ma tutto dovrà essere ripensato rispetto alle prossime elezioni politiche con il loro famoso doppio turno che ridarà tanto ai socialisti quanto ai neogaullisti e forse ance ai neocentristi, nuove speranze.

In ogni caso la vittoria della Le Pen è l’evento più significativo che si spiega con le ampie, forti solide radici che la destra francese ha e che ha saputo esprimere in contrasto con la tradizione socialista e poi comunista nei momenti topici della storia francese. Il problema oggi in Francia è che a far cultura è rimasta solo la destra e questo, come è noto a pochi, è importante perché tra le culture alta e bassa c’è sempre stato un rapporto e il popolo, la povera gente, è sempre stata influenzata da questo rapporto molto più di quanto i radical-chic sinistrorsi non abbiano compreso, perché non hanno mai letto Vincenzo Cuoco. Oggi semmai si dedicano alle rubriche degli chef, ma è un’altra cosa.

Gli stolidi commentatori televisivi partono dal trionfo della Le Pen per dire che non esiste più l’asse franco-tedesco. Pobrecitos que no comprenden nada, dico io. Un altro asse franco-tedesco molto più importante per le sorti del mondo si sta formando giù, sulle sponde dell’alto Niger, nel cuore dell’Africa nera, dove Francia e Germania continuano a essere ben decisi a combattere uniti la presenza cinese. La Spagna ha fatto risaltare solo una buona vittoria del partito degli indignados con il ridimensionamento dei partiti popolare e socialista, ma senza gravi ripercussioni. Segnalerei piuttosto in Catalogna la vittoria della sinistra contro Convergencia y Uniòn, partito nazionalista di centrodestra, il che fa presagire una rotta indipendentista ben diversa da quella preconizzata da Mas e amici. Nel resto d’Europa le destre hanno avuto una grande affermazione in Olanda, in Austria e in Ungheria, qui addirittura con un partito dichiaratamente antisemita e nazista. E la stessa cosa è accaduta nei paesi scandinavi.

Chi conosce la storia della destra europea non si stupisce di ciò, perché sa che dove storicamente è mancata una sinistra socialista e comunista forte e ben radicata la destra ha sempre cavalcato le praterie in questi paesi facendo venire i brividi a coloro che credono nella persona. Sottolineo che l’unico Paese dove ciò non è avvenuto è la Svezia, dove i socialdemocratici sono ritornati al potere con un programma socialista d’antico regime, si potrebbe dire, ossia welfaristico, deficit spending, neocomunitario ma anche neostatalista, antideflazionista, antiliberista, il che prova che quando il socialismo ritorna a rappresentare la povera gente, non solo vince, ma la povera gente non esprime il peggio di sé come i neonazisti e i neofascisti ma il meglio di sé, come è incarnato dai valori popolari cristiani e socialisti.

Ma la vera nuova Europa emerge là dove essa è culturalmente nata: in Grecia. Qui Syriza diventa il primo partito, con il centrodestra al secondo posto, i socialisti al terzo, e infine Alba dorata, al 9%, ossia un partito come quello ungherese neonazista e antisemita. Qui in Grecia, pur avendo costretto un paio di anni fa, il povero Papandreu a dimettersi, quando da primo ministro socialista aveva annunciato di voler far svolgere un referendum sulle misure inaugurate dalla Troika (e dopo di allora di lui si son perse fisicamente le tracce), il Pasok è stato distrutto nello stesso tempo in cui Berlusconi e Tremonti venivano costretti alle dimissioni, con la Merkel che piangeva, Obama che la faceva da padrone ma non riusciva a ottenere nulla se non che “il sangue di Silvio non cadesse sulle sue mani”, come ci ha rivelato Geithner nel suo libro di memorie. Il sangue dei politici greci non è caduto sulle mani di nessuno e il popolo ha potuto votare, e questo ora ha fatto sì che l’unica vera alternativa ragionevole al Partito popolare europeo e alle sue disastrose linee economico-politiche abbia stravinto e sia il primo partito. Non nascondo i miei valori: da vecchio e non pentito cattolico-comunista gioisco perché dietro a Syriza ci sono i vecchi gloriosi quadri del Partito comunista greco dell’interno, non filo-moscovita, ma togliattiano ed eurocomunista.

In Italia è stata tutta un’altra storia. A parer mio, la questione più rilevante delle elezioni politiche europee italiane è stato il coagularsi di questo intreccio di situazioni. La prima è quella che dopo il colpo di stato antiberlusconiano e antitremontiano, guidato in forma thailandese dal Presidente della Repubblica con la creazione artificiale, faustianamente, dell’homunculus Monti e, per fortuna, senza militari, il popolo ha potuto tornare nuovamente a votare. E guarda un po’ cosa accade: Matteo Renzi, il ragazzo che parla veloce, come lo definisce il Financial Times, prende il 40%, cioè il 30% di Bersani più il 10% di Monti, come’era avvenuto nelle elezioni politiche del febbraio 2013. Elezioni cui neppure un re della Thailandia avrebbe potuto opporsi.

Ma veniamo alla seconda questione. Il Pd di Renzi, con il suo 40%, batte tutti i record: è il primo partito politico europeo; è il primo partito socialista europeo, e quindi potrà disporre di un alto numero di seggi al Parlamento che gli permetterà di ostacolare veramente la politica del Ppe; è l’unico partito in grado di fronteggiare la Merkel e di raccogliere attorno a sé, invece che il povero Schulz, una vera alternativa socialista, keynesiana e antiblairiana che ricostruisca una nuova Europa.

Il problema vero è quello di interrogarsi sul fatto se Renzi e i suoi compagni saranno in grado di fare tutto ciò ossia di liberarsi delle scorie neoliberiste, ordofinanziarie e neobonapartiste che allignano tra i suoi quadri, tra i suoi dirigenti. Una cosa è però indubitabile: Renzi segna la vittoria del cattolicesimo democratico italiano. Su molti fronti, come ho sottolineato altre volte, è emblematico che sia stato un cattolico a far entrare il Pd nel Pse, e questo è un segno di infinità libertà di cui tutti gli italiani devono essergli grati: l’unità partitica dei cattolici è finalmente sepolta. La seconda vittoria è sempre quella del cattolicesimo democratico su ciò che rimane della gloriosa tradizione cattolico-comunista: ossia non rimane più nulla. D’Alema fa il viticultore, Bersani, che è un gran brav’uomo, cerca di trasformarsi da amministratore in politico, e tutti gli altri seguono fedeli il mio vecchio amico Ugo Sposetti, che però non mi pare voglia rifondare un partito. I cosiddetti veltroniani la tradizione politica la avevano già abbandonata da tempo, e si deve a essi e al buon Piero Fassino se anche ciò che rimane di un frugale apparato del Pd quella tradizione l’abbia ormai totalmente abbandonata, Chiamparino docet. Ma è stata proprio questa trasformazione a “spianare” Mario Monti e i suoi incredibili seguaci e a dare un durissimo colpo a Forza Italia e a Berlusconi.

La conseguenza è stata che questa straordinaria vittoria del cattolicesimo democratico (e qui anche Papa Francesco ha fatto la sua parte – che Dio lo abbia in gloria, se posso permettermi di usare una simile affermazione) ha tagliato le unghie a Beppe Grillo e ai suoi bravi ragazzi, che si dividono tra facinorosi e uomini e donne di buona volontà. Per carità, rimaniamo coi piedi per terra: Grillo si è definitivamente trasformato da movimento in partito e quindi anche per il Movimento cinque stelle è giunta l’ora della verità. Rimarrà un partito bonapartista di protesta o diverrà un partito di sinistra, a sinistra del Pd?

Per coloro che hanno sempre pensato che l‘Italia sia un Paese moderato per natura sarebbe una sconvolgente scoperta. Ma, come diceva un grande Pontefice: non dobbiamo avere paura.

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