Azzurro pallido, quasi stinto. È un mesto ammaina-Berlusconi, quello che il voto europeo fa registrare in Veneto, già epicentro del forzaleghismo, con una Regione in mano per 15 anni al forzista Galan e adesso al leghista Zaia, e con il centrosinistra relegato ai margini. Quel che resta del Pdl richiama una piccola Caporetto politica, a partire dal battaglione principale: Forza Italia crolla sotto il 15 per cento, quattro punti e quasi 200mila voti sotto il già scialbo esito delle politiche di un anno fa; gli altri manipoli del fu-Pdl, Ncd e Fratelli d’Italia, galleggiano poco sopra il 3 a testa. A completare la débacle, i forzisti scivolano al quarto posto in regione, sorpassati sia pur di pochi decimali anche dalla Lega, che un anno fa alle politiche stava sotto di loro di dieci punti.
Ma non è una sorpresa, anzi: siamo di fronte alla cronaca di una sconfitta lungamente annunciata. La crisi viene da lontano, vedendo via via sgretolarsi il massiccio consenso che alle politiche del 2006 aveva visto il partito di Berlusconi spadroneggiare col 36 per cento. Da lì è iniziata una rapida discesa, che nel 2010 è costata la presidenza della Regione, ceduta a una Lega super-rampante, capace di arrivare da sola al 35, mentre l’alleato-rivale sprofondava al 25; e un anno fa, alle politiche, ha visto i forzisti franare sotto il 19. Nel contempo, in giro per il Veneto, arrivava una batosta dopo l’altra, con la perdita di piazze tradizionalmente di centrodestra a partire da Vicenza e Verona; quest’ultima riconquistata sì, ma solo grazie alla rivitalizzazione garantita dalla Lega di Flavio Tosi. Al punto che oggi, su sette capoluoghi, il partito di Berlusconi può vantare un solo sindaco, per giunta in una realtà periferica come Rovigo; e anche qui comunque traballante per una serie di guerricciole interne.
Come si è arrivati a tanto, in una delle aree-chiave del forzismo? Molto più per vizi interni che per meriti altrui. Anche nei momenti di maggior gloria, il partito in Veneto non è mai riuscito a darsi un leader, una sintesi, un’organizzazione. Aveva uomini in vista, certo, in testa il governatore Giancarlo Galan. Ma un altro dei suoi leader, Renato Brunetta, era stato duramente strapazzato quando aveva provato a candidarsi sindaco a Venezia. E nemmeno quando questi due erano entrati al governo assieme a Maurizio Sacconi (oggi tra i transfughi del Nuovo Centrodestra), la base veneta se ne era accorta: loro distanti fisicamente e mentalmente dal Veneto, in casa una rissosa federazione di province ciascuna squassata da una qualche lite al proprio interno.
Con un uomo-ombra sullo sfondo, fiduciario totale del Cavaliere: il padovano Nicolò Ghedini. Chi ha registrato i (mal)umori della base, in questi ultimi anni, capisce benissimo perché oggi in Veneto il partito sia così malconcio. Ed è preoccupato, e parecchio, perché tra un anno si vota per le regionali: dove, visto l’esito di queste europee, per la prima volta nella storia il centrosinistra rischia seriamente di vincere.
Il nodo principale, lamentano tanti iscritti di base, è l’assenza di una vera democrazia interna: i posti-chiave sono controllati dai soliti noti, che si puntellano tra di loro senza una legittimazione agganciata a congressi reali anziché ad assemblee di cartapesta. Una contestazione che è stata espressa a voce alta anche in ormai numerosi incontri pubblici, e che non sarà possibile continuare a ignorare adesso, dopo l’impietoso esito elettorale. Reso ancor più amaro da quel che è capitato nel resto del Nordest: dal Trentino-Alto Adige, dove Forza Italia è rimasta appesa a un risibile 7 e mezzo per cento, che supera a mala pena il 10 anche attaccandoci Ncd e Fratelli d’Italia; al Friuli-Venezia Giulia, regione già persa lo scorso anno dai “berluscones” a beneficio di Debora Serracchiani, e dove ora i forzisti si sono trovati inchiodati al 14 per cento, che sale al massimo al 23 con i puntelli dei due schieramenti messisi in proprio. Caporetto, del resto, è a due passi anche sulle mappe geografiche, mica solo su quelle politiche.