In queste ore di euforia elettorale cerchiamo di capire il significato del voto europeo e soprattutto i possibili scenari che si aprono. Partiamo dai dati come sono presentati sul sito del Parlamento europeo. Il numero totale dei seggi è fissato a 751 e la ripartizione per Paese è rigida e calcolata in base alla popolazione rispettiva. Il tasso di partecipazione è stabile rispetto al 2009 ed è stato in media del 43,09% degli aventi diritto, con picchi in Slovacchia del 13% e in Belgio del 90% (dove il voto non è un diritto ma un obbligo).
Una prima considerazione riguarda il risultato totale europeo che ci permette di leggere meglio il sentimento elettorale e capire come si potrebbero creare le alleanze in seno al Parlamento tra tre aggregati dei gruppi politici [comparando i dati del 2009 con 766 seggi totali]:
“europeisti convinti” (Ppe – conservatori; S&D Pse – progressisti; Adle – liberali) hanno ottenuto nell’insieme 467 seggi (62,18%) [553; 72,19%], e rispettivamente 213 seggi Ppe=28,36% [274;35,77%], 190 S&D Pse=25,30% [196; 25,59%], e 64 Adle=8,52% [83; 10,83%].
“anti-europeisti”, cioè il frastagliato insieme di euroscettici, euro critici e nazionalisti/localisti, ha ottenuto nell’insieme 189 seggi (25,17%) [121; 15,8%]. Quest’ultimo insieme include i gruppi Ecr-Conservatori e Riformisti 46 seggi=6,13% [57; 7,44%], NI-Non Iscritti 41=5.46% [33; 4,31], Efd-Europa della libertà e della democrazia 38=5.6% [31; 4,05%], e Altri-senza appartenenza a un gruppo politico 64=8,52% [0].
“europeisti alternativi” ha ottenuto complessivamente 95 seggi (12,65%) [92; 12,01%], e rispettivamente Verdi-Ale 53 seggi=7,06% [57; 7,44%] e la sinistra europea Gue-Ngl 42 seggi=5,59% [35; 4,57%] .
Appare chiaro che l’elettorato europeo ha spostato circa il 10% dei voti dagli “europeisti convinti” agli “anti-europeisti”, mentre gli “europeisti alternativi” sono rimasti pressoché stabili. In realtà, considerando che le politiche del rigore e dell’austerità hanno colpito una massa di circa 200 milioni di cittadini europei, lo spostamento verso posizioni anti-europeiste è piuttosto modesto. Tra gli “europeisti convinti” è stato il gruppo Ppe-conservatori a subire un’emorragia di circa 7% dei voti, mentre Adle-liberali hanno perso il 2% dei voti e S&D-progressisti sono sostanzialmente stabili. Ciò significa che il Ppe è stato punito più degli altri “europeisti” a causa del fattore “M”, cioè del crescente problema tedesco in Europa. L’aggregato degli “europeisti alternativi” è rimasto sostanzialmente stabile, nonostante le abili candidature di genere dei verdi e la novità della sinistra con il greco Tzipras.
Se il messaggio popolare a livello europeo si può sintetizzare in “siamo europeisti ma non ci piacciono le vostre scelte”, quindi una sana punizione ma nulla di più, è a livello nazionale che le leadership sono state “bastonate” dagli elettori. Francia, Belgio, Grecia e Regno Unito hanno significativamente punito i governanti. In controtendenza l’Italia dove, per motivi in prevalenza endogeni, il governo Renzi è stato ampiamente premiato – il principale partito della coalizione di governo, Pd, ha ricevuto il 41% dei voti – ma la classe dirigente conservatrice e popolare è stata punita.
Non c’è stata neppure l’esplosione di voti a favore del gruppo M5S che si proponeva di canalizzare la rabbia popolare contro l’austerità e il rigore. Tra i motivi endogeni di questo risultato italiano c’è certamente il fatto che di Europa non si è sostanzialmente parlato, mentre il voto è stato un referendum sull’operato del giovane governo Renzi.
Il risultato elettorale europeo fa sorgere lo scoglio che dovranno superare i governi dei 28 paesi del Consiglio europeo nella riunione formale del 26 giugno, quando dovranno dar seguito al mandato attribuitogli dall’art.17 del Trattato di Lisbona (2009) che prevede che “il Consiglio designa il presidente della Commissione europea a maggioranza qualificata, tenendo conto del risultato delle elezioni del Parlamento europeo”.
Questo esercizio non sarà affatto facile perché dei quattro grandi paesi con il maggior peso politico, due (Francia e Regno Unito) non possono non tener conto del pesante risultato elettorale che chiede ai rispettivi governi di abbandonare la linea “europeista” finora seguita. Inoltre, il “populismo progressista” (S&D) ha avuto successo solo in Italia (in Germania è stato lieve e comunque prevarranno le logiche della grande coalizione con i conservatori al governo), e il gruppo politico di riferimento è secondo in Europa. Invece, il “populismo conservatore” (Ppe) ha tenuto in Germania ma anche in altri paesi (tra i quali Spagna, Lussemburgo, Austria, Polonia, Croazia), e il gruppo politico di riferimento è primo in Europa (nonostante il 10% di flessione). Infine, il “populismo per più Europa” (Adle) ha la sua principale base elettorale in Belgio, Francia e Olanda, ma per il resto ha una distribuzione molto frastagliata se non marginale.
La soluzione ottimale sarebbe quella delle “larghissime intese” tra i tre gruppi “europeisti convinti”.
Questo significherà trovare un candidato di compromesso che difficilmente potrà essere uno dei tre candidati presentati e votati dagli elettori. Il lussemburghese Junker (Ppe), benché proposto dalla Merkel, è il simbolo delle scelte di austerità e rigore che lui stesso ha messo in atto durante i suoi 10 anni di presidenza dell’eurogruppo. Con la situazione politica europea che si è venuta a creare non conviene alla Germania provocare reazioni ulteriori da parte dei partner europei e dalla cittadinanza. Quindi, si può credere che i “populisti conservatori”, nel segreto delle riunioni del Consiglio, aprano a un candidato terzo ma di garanzia per i fondamentali del rigore economico. Il tedesco Schulz (S&D) è arrivato secondo a livello europeo e non gli basterà il sostegno dell’alleato italiano (Pd), che potrebbe preferire altre posizioni di rilevo nell’Ue.
Visto il risultato elettorale, l’Italia di Renzi e Napolitano potrebbe proporre Enrico Letta come giusto compromesso per il posto di presidente della Commissione o in alternativa Massimo D’Alema per il posto di Alto Commissario per la politica estera e di sicurezza Ue (che bilancerebbe le pulsioni squilibrate verso la regione baltica).
Meno utile sarebbe invece accettare un presidente del Parlamento europeo oppure un semplice commissario benché di peso (si ventilava il portafoglio del commercio o dell’industria con la solita carica di vicepresidente) a fronte di vaghe promesse di “ammorbidimento” del rigore.
Considerata la debacle della Francia di Hollande, credo che l’Italia possa, e debba, aspirare con fierezza a prenderne il posto nel ruolo di contraltare della Germania in Europa (e di interlocutore privilegiato di Usa, Russia e Cina). Se ciò si avverasse, allora sarebbe vero che Renzi “cambia verso all’Europa”. Ciò sarebbe vero anche nelle sue direttrici geopolitiche che dalla guerra in Jugoslavia (1991) sono state ipotecate solo dagli interessi economici tedeschi.
In questo quadro, se il Parlamento europeo non vorrà autoconfinarsi alla totale irrilevanza, sarà necessario che i gruppi “europeisti” costruiscano alleanze e compromessi per presentare ai governi un solo candidato presidente della Commissione che possa essere designato dal Consiglio e che goda del consenso politico necessario per essere nominato con voto dal Parlamento. Ci si ricordi che il Parlamento potrà solo approvare o bocciare il candidato espresso dal Consiglio.
Si tratta dell’ultima chiamata perché esista una democrazia europea in grado di funzionare. Se i parlamentari europei non vorranno o non sapranno agire politicamente è prevedibile che l’Unione europea diventi per necessità sempre più inter-governativa, con un possibile grave danno all’insieme del progetto europeo.
Con la probabile fuoriuscita del Regno Unito e un ridimensionamento tedesco e francese (si è rotto l’asse) – un fatto di portata epocale nella breve storia dell’Unione – un’iniziativa dell’Italia potrebbe far sorgere gli “Stati Uniti d’Europa”, una vera e compiuta unione politica, sociale ed economica. Ciò sarebbe una svolta con effetti mondiali che non deve essere sacrificata da mediocri interessi personalistici e di appartenenza politica. È l’ora di pensare in grande con prospettive a medio e lungo termine. Fermarsi a una risposta tattica su lavoro e crescita potrebbe esserci fatale!