Proviamo a tirare un po’ le fila sul risiko delle poltrone Ue e sulle “chance” (inattese) in mano al premier Matteo Renzi. Il quale si è seduto ieri al primo giro di tavolo a Bruxelles rafforzato su almeno due versanti dal successo elettorale di domenica. Il primo: è l’unico premier in carica a essere stato premiato dalle urne, assieme alla super-cancelliera tedesca Angela Merkel (che però ha visto limati i suoi voti, mentre Renzi li ha molto aumentati). Il secondo: Renzi è un leader “europroblematico” ma non certo euroscettico e tanto meno anti-euro: si ritrova quindi perfettamente in sintonia con il mood politico dell’elettorato europeo del 2014. Terzo e non ultimo: la sua salda appartenenza al Pse (una delle due “famiglie” storiche dell’europarlamento) è uscita enfatizzata dal peso del Pd a Strasburgo, primo gruppo parlamentare singolo.



Trascuriamo un dettaglio tecnico-istituzionale che tuttavia può condizionare gli sviluppi: il commissario italiano uscente (Antonio Tajani) è stato eletto all’europarlamento ed è immediatamente dimissionario. In teoria, quindi, Roma potrebbe vedersi costretta a nominare immediatamente un sostituto a tempo per lo stesso portafoglio (Industria) fino alla scadenza del 31 dicembre 2014 (e l’ultimo semestre dell’anno sarà quello di presidenza italiana dell’Unione).



In un altro momento Renzi chiederebbe comunque senza esitazione – e probabilmente otterrebbe – la successione italiana a José Manuel Barroso alla presidenza della Commissione Ue: diciamo per l’ex premier Enrico Letta, dal profilo centrista e trasversale come quello che nel ‘99 garantì la nomina a Romano Prodi. Ma “Letta numero uno” è irrealizzabile per almeno due ragioni. La prima (la meno importante) è che l’Italia nell’Ue resta un Paese fondatore ma ne è tuttora un “osservato speciale” – se non un “malato” – sul piano economico-finanziario. Secondo ostacolo (quello vero) è la presenza di un italiano – Mario Draghi – su un’altra poltrona di prima fascia dell’Ue: la presidenza della Bce.



A quali obiettivi ”super-Renzi” può quindi realisticamente puntare al tavolo dell’euro-risiko? Le poltrone più importanti all’interno della Commissione sono due: gli Affari economici e l’Antitrust (seguono Mercato interno, Energia, Trasporti). La prima – il “ministero delle finanze” di Bruxelles – sarebbe ovviamente la prima scelta per un premier che dal suo primo giorno ha voluto incarnare l’opposizione “costruttiva” all’assolutismo tedesco nell’imporre austerity finanziarie assortite, pareggi di bilancio, “Fiscal compact” vari. Ma proprio per questo è improbabile che il portafoglio finora retto dal finlandese Olli Rehn venga assegnato a un Paese dell’Europa mediterranea: tanto più ora che all’Eurotower Draghi sembra ogni giorno di più orientato a politiche monetarie espansive per stimolare credito e ripresa. È lo stesso argomento che lascia freddi gli euro-osservatori su un altro “ballon d’essai” lanciato da Palazzo Chigi già nella notte fra domenica e lunedì: una presidenza italiana dell’Eurogruppo, il “segretario permanente” dei ministri economici dei 18 paesi aderenti all’euro.

Dentro la Commissione, l’altro ministero a cinque stelle resta l’Antitrust: già retto – con buon ricordo – dall’Italiano Mario Monti negli anni ‘90. Il commissariato alla Concorrenza promette di essere indaffaratissimo e centrale. Da un lato la ristrutturazione post-crisi via fusioni e acquisizione è già iniziata a passo di carica in molto settori (Pfizer respinta su Astrazeneca in Gran Bretagna; Alstom congelata fra GE e Siemens in Francia). D’altro canto l’euroscetticismo uscito a macchia di leopardo dalle urne è comunque fortemente venato di nazionalismo: anzitutto in Francia. Il nuovo arbitro dei mercati basato a Bruxelles avrà dunque fra le mani dossier bollenti – ai limiti dell’”impossible” – sul futuro di molti settori (a cominciare da quello bancario), ma anche il potere ultimo di orientarli, se non di deciderli: di acquisire in ogni caso enormi crediti politico-economici per il proprio sistema-Paese.

Chi potrebbe raccogliere, quasi vent’anni dopo, l’eredità di Monti, che ebbe a che fare con Microsoft e con le Casse di risparmio tedesche? Ancora Enrico Letta, si dice. Oppure il fiorentino Lorenzo Bini Smaghi: un tecnico Bankitalia inviato a suo tempo nell’esecutivo Bce dallo stesso Silvio Berlusconi che nel 1994 scelse l’economista della Bocconi. Oppure ancora una “wild card” come l’economista di Chicago Luigi Zingales, membro del primo “club della Leopolda” e chiamato ora da Renzi nel cda Eni.

Fuori – a lato – della Commissione c’è la poltrona di “mister Pesc”: oggi ricoperta in quota rosa da lady Catherine Ashton. Il “ministro degli Esteri” dell’Ue è in realtà più un super-ambasciatore che un capo delle relazioni diplomatiche dell’Unione: il suo ruolo è più ricco di prestigio che di potere. Ma il prestigio (il mix di esposizione e di relazione) è davvero molto. Non sorprende, comunque, che sia tornato a correre un nome italiano candidato già in passato: quello di Massimo D’Alema, ex premier ed ex ministro degli Esteri. Ma allorché Renzi – durante il suo “victory speech” di lunedì – ha sottolineato che «la rottamazione ora può cominciare davvero», il nome dell’ex leader Ds non sembra di piena attualità (più facile un ruolo di “alto inviato Onu”, come quello oggi retto da Prodi per l’Africa).

Se all’Italia dovesse comunque essere affidata questa poltrona di grande immagine è fin d’ora verosimile che Renzi agiterebbe un cocktail per lui ormai classico: una donna, relativamente giovane, con esperienza internazionale ma non necessariamente di estrazione politico-diplomatica (e attenzione al nome eventuale: potrebbe essere inviato a rappresentare l’Europa nel mondo in preparazione alla successione a Giorgio Napolitano al Quirinale).

A conclusione del risiko delle poltrone sarà avvicendato (forse) anche il “presidente dell’Unione”, Hermann Von Rompuy. Era l’incarico ambito – in prima battuta – dall’ex premier britannico Tony Blair e non è affatto escluso che Romano Prodi – pigmalione di Renzi molto ciarliero in questi giorni – ci abbia fatto un pensierino. Ma super-Renzi sembra avere meno bisogno anche di lui. Anche per il Quirinale.

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