Se si tornasse alle urne, oggi, per una sorta di ripetizione del voto, Matteo Renzi si ritroverebbe cinque o sei punti in meno, in un colpo solo. Accetterei scommesse, se potesse esserci la controprova. Li perderebbe, questi voti, non per qualche errore commesso, anzi. Prima e dopo il voto il premier non ha sbagliato e non sta sbagliando un colpo. Ma per una ragione più sottile, che nessuno ha fatto notare. L’incubo del comico arrabbiato al potere si è rivelato infatti uno dei bluff più clamorosi della storia repubblicana. Inventato da Beppe Grillo per catalizzare voti su di sé è stato invece abilmente tesaurizzato da Renzi depositario dell’unica speranza rimasta in circolazione sullo scenario politico.



Nessuna intenzione di sminuire il risultato elettorale, sia chiaro, c’è solo bisogno di dire quel che tutti possono capire ma nessuno dice: quando un risultato è così clamoroso non basta una sola lettura o un fenomeno solo a giustificarlo. Ce ne sono stati tanti insieme, alcuni più effimeri o emotivi/estemporanei, altri più strutturali. Il dato più importante, e strutturale, analizzando i flussi elettorali, è proprio il travaso di voti che Swg evidenzia da M5S al Pd: più di un milione. Un dato che nella sua imponenza evidenzia come in molti hanno voluto riconoscere all’ex sindaco di Firenze di aver messo mano in larga misura a quelle tante mini-rivoluzioni dai grillino solo enunciate senza avere avuto il coraggio di metterci mano, una volta constatato che questo avrebbe comportato contaminazione con altri. 



L’immagine del colloquio imbarazzante e brevissimo fra Grillo e Renzi al momento delle consultazioni di governo ricaccia insomma in campo grillino la sfida che il comico politico voleva portare nel Palazzo. Se Renzi terrà il punto questi flussi a suo vantaggio potranno solo aumentare, e ingenerare fenomeni interessanti dentro il corpaccione imbalsamato dei gruppi parlamentari M5S nei quali crescerà la voglia di affrancarsi dai due leader sempre più inadeguati a fronteggiare gli eventi e sempre meno in grado di esercitare da soli e fuori dalle istituzioni la loro virtuale e poco virtuosa leadership. A ben vedere però non è irrilevante nemmeno il dato dei 350mila ex Pd che hanno invece, in controtendenza, scoperto Grillo, lasciando il Pd. A testimonianza che su quel fronte c’è una turbolenza enorme i cui effetti sono ancora imprevedibili.



Ancor più imponente, ma più effimero, tutto da confermare cioè, è il dato dei voti arrivati al Pd dal centro e dal centrodestra. Scelta Civica, priva del leader Mario Monti e in piena crisi politica, ha ceduto ai Democratici la bellezza di 1 milione e 270mila voti, un vero e proprio trasloco per sindrome da voto utile, dalla quale si è leggermente sottratta l’Udc (che cede solo 100mila voti a Renzi) per aver scelto l’approdo con Alfano che dava maggiori prospettive di atterraggio morbido a Strasburgo, come si è visto.

Un altro mezzo milione di voti, poi, sono arrivati al Pd dall’ex Pdl e più in generale dal centrodestra. Ecco, sono questi i voti che Renzi ora deve conquistare davvero, voti forse più spaventati da Grillo che attratti realmente dal premier, al quale hanno semplicemente fatto un’apertura di credito, in molti casi decisa all’interno del seggio elettorale e infatti sfuggita fino all’ultimo alle previsioni anche degli analisti più attenti.

L’impressione è che Renzi sia ben consapevole della delicatezza di questa sfida e del carattere ancora molto fragile di questa quota di consensi arrivatigli, in grado di trasformare la vittoria, già prevista dai più, in trionfo e la prevedibile sconfitta di Grillo in disfatta. Le prime mosse del premier sono di straordinaria lungimiranza.

La prima. Il rinnovato asse con il Quirinale, andato un po’ in crisi nelle settimane prima del voto e ora rilanciato alla grande. In fondo è stata questa la vittoria, ancora una volta, di Napolitano, che ha saputo pilotare un doloroso quanto necessario cambiamento a palazzo Chigi una volta capito prima di tanti altri che con l’aria che tira nel Paese occorreva una risposta choc e un’accelerazione dei tempi. Il risultato è sotto gli occhi di tutti, l’Italia si presenta alla vigilia del semestre a sua guida come l’unico partito di governo dei principali Paesi uscito vincente – e in che misura! – dalle urne. Con la prospettiva di potere valorizzare l’ex premier Enrico Letta in qualche prestigioso incarico europeo.

Ed ecco la seconda mossa. In chiave europea, e in rinnovata sintonia con il Colle. Un ruolo guida da ritagliarsi, per Renzi, come mediatore nell’ambito dei nuovi assetti Ue, che condannano le due grandi famiglie del Ppe e del Pse a parlarsi, non essendo nessuno in grado di farlo da sola e d essendo folle quanto complicato pensare di fare alleanze alla propria sinistra o alla propria destra con i nemici dell’euro con il solo obiettivo di rendere ininfluenti i tradizionali avversari. Saranno sei mesi in cui si gioca tutto. Se l’Europa delle larghe intese aprirà alle misure per la crescita e al rigore meno rigoroso in Italia potrebbero decollare le riforme e anche la fiducia economica, come qualche indicatore lascia già intravedere. A quel punto, l’avvicinarsi del 90esimo compleanno per Napolitano potrà far intravedere, la primavera prossima, il compimento della sua buona battaglia (con le prevedibili dimissioni) e chissà che Renzi non sia tentato a quel punto di accomunare il suo destino a quello dell’inquilino del Colle, per andare a raccogliere dalle urne un consenso parlamentare che a quel punto potrà essersi per lui davvero consolidato. Ma non è un passaggio da poco: da sindaco a premier a statista il cammino non è così breve.