Le ultime lettere di Andreotti hanno stupito molti. Mostrano semplicità e umiltà, sono rivelatrici di fede cristiana e attenzione verso i poveri, appaiono segnate da venature espressive di un senso costante dei propri limiti. Un buon cristiano, insomma, un po’ all’antica.
Il senso di gratitudine per una vita “incredibilmente felice”, la convinzione che le difficoltà incontrate alla fine della sua carriera non erano paragonabili agli onori eccessivi ricevuto in precedenza, la sensazione della propria modestia davanti ad impegni tanto elevati convergono a suggerire questa immagine.
Alcuni passaggi sono illuminanti, come quello in cui esprime gratitudine per Giovanni Paolo II. Andreotti era abituato a frequentare vescovi e cardinali e Andrea Riccardi lo ha definito un “cardinale esterno”. Negli anni ottanta, la Segreteria di Stato di Casaroli e Silvestrini nutriva una stima grandissima tanto da ricorrere molto spesso al suo aiuto e al suo consiglio. Ma da queste lettere apprendiamo che Andreotti ha sempre mantenuto il senso di una profonda distanza tra il Papa e un semplice fedele, fosse pure un politico famoso. La sua “romanità” insomma non era identificabile con il cinismo tanto spesso attribuitogli ed aveva una risonanza spirituale poco visibile ma, a suo modo, autentica.
La modestia, la riservatezza, una timidezza quasi patologica hanno nascosto per anni una personalità che a molti sembrava enigmatica. Ma per chi sentisse davvero il bisogno di sciogliere quell’enigma, non era difficile cercare di conoscerlo “da vicino”, per usare un’espressione frequente in molti suoi libri: Andreotti infatti è rimasto accessibile a chiunque desiderasse incontrarlo, anche al culmine della sua carriera. Indubbiamente, ha occupato in modo ininterrotto importanti cariche politiche per quasi cinquant’anni… Si può dire certamente che abbia avuto molto potere. Ma queste lettere rinviano alla semplicità della sua vita, all’educazione trasmessa ai figli e da questi riflessa in comportamenti altrettanto modesti, alla cortesia non casuale di chi lavorava per lui. Sono elementi difficilmente componibili con la torbida arroganza di cui veniva accusato.
Le sue ultime lettere ci spingono perciò a chiederci nuovamente e in modo non scontato come e perché abbia usato il grande potere che ha avuto a disposizione. Di certo, non lo ha usato per arricchirsi o per costruire un impero personale. La sua memoria di ferro e la sua grandissima capacità di lavoro gli hanno permesso piuttosto di gestire innumerevoli dossiers e di risolvere tantissimi problemi, da quelli di un povero contadino di Frosinone alle più intricate questioni internazionali. Un solo esempio: Jin Luxian, il vescovo “patriottico” di Shanghai, riconosciuto dal regime comunista, era stupito e grato per l’amicizia che Andreotti manifestava per lui, non mancando mai di andarlo a trovare nel corso dei suoi viaggi in Cina e mantenendo a distanza rapporti intensi e significativi.
Riservate a pochi intimi e da aprirsi solo dopo la sua morte, è difficile interpretare queste lettere come ennesima espressione di ipocrisia. Non saranno sufficienti per far cambiare idea a chi crede che il vero Andreotti sia quello, machiavellico e luciferino, raccontato nel film “Il divo”. Ma forse imporranno a tutti di riconoscere che non è stato un uomo banale e che il suo tempo non è totalmente da buttare via.