Come tutte le opere di propaganda, il Quando c’era Berlinguer, regia di Walter Veltroni, entusiasma chi condivide le idee e le passioni dell’autore e irrita o lascia scettici chi pensa diversamente. Il film di Veltroni è però interessante soprattutto come autoritratto del postcomunismo ed è quindi utile per comprendere l’attualità e la stessa dialettica in corso nel Pd.
Il film celebra la figura di Berlinguer sostenendo una sorta di verginità dei comunisti italiani sia rispetto alle cose sovietiche sia a quelle italiane. Punto di partenza sono le parole di Pier Paolo Pasolini sulla “diversità” del Pci in quanto “Italia pulita” in una “Italia sporca”. Walter Veltroni sviluppa questa idea mostrando un Berlinguer in dura e aperta contrapposizione con l’Unione Sovietica, tanto che i servizi dell’est tentano di ucciderlo. L’eurocomunismo è quindi evocato come una lotta coraggiosa contro la politica di potenza sovietica. E così i capitoli successivi – dal compromesso storico alla questione morale – ci spiegano che in sostanza i comunisti italiani non erano comunisti, ma i “veri” socialisti, i “veri” cristiani, i “veri” liberali.
Di fronte a tale “grande bellezza” del Pci sono però inevitabili tre domande a cui il film di Veltroni sfugge. E cioè: come mai il Pci – se era così autonomo, diverso e in rotta con l’Urss – è stato automaticamente travolto dalla caduta del muro di Berlino? Come mai questa “Italia pulita” ha visto nel corso di venti anni un Sivio Berlusconi disarcionare i suoi leader, uno dopo l’altro, da Occhetto e D’Alema a Veltroni e Bersani? Ed infine: come mai questa “eccellenza” dalle “magnifiche sorti e progressive” è stata in quattro e quattr’otto rottamata da un giovanotto ex dc di provincia?
La verità è che quando secondo Veltroni si voleva ammazzare Berlinguer, il dissenso sulla Cecoslovacchia era stato ridimensionato già nel 1969 con la cacciata del gruppo del Manifesto che aveva titolato, in polemica con il vertice del Pci, “Praga è sola” e i finanziamenti sovietici avevano ripreso (come ammette anche lo storico del “Gramsci” Francesco Barbagallo nella sua biografia di Berlinguer) al ritmo di 4,8 milioni di dollari all’anno. Quando – secondo Veltroni – Berlinguer a Mosca, alla celebrazione del 60° anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, addirittura “scomunica” il Pcus, in realtà “rompe” il fronte eurocomunista (Marchais è assente e a Carrillo è vietato parlare) e in Italia negli stessi giorni il Pci contestava la Biennale dedicata al dissenso nei paesi dell’Est all’unisono con l’ambasciatore sovietico Rykov e il plauso della Pravda.
Il legame con Mosca è infatti identitario e fondamentale per il Pci in particolare per due ragioni. In primo luogo l’Unione Sovietica, anche quando ha cessato di essere un “mito” (come modello), rimane pur sempre la base dell’essere comunista in quanto è la “prova” che è possibile trasformare la società, vivere in un sistema non capitalista, che nazionalizzazione e pianificazione sono vie d’uscita che funzionano.
Inoltre, anche dopo le prese di maggiore distanza da Mosca come lo “strappo” del 1981, l’Unione Sovietica rimane un punto fermo per il Pci in quanto “contrappeso” all’imperialismo occidentale. È per questo che la caduta del Muro di Berlino provoca un “effetto domino” che travolge immediatamente i partiti comunisti occidentali anche se, come il Pci, autonomi e su posizioni critiche.
Dopo la caduta del comunismo che cos’è il postcomunismo italiano? Se Togliatti allineava Dante, Machiavelli, Vico e Croce per giungere a Gramsci, Veltroni delineando Berlinguer come il fondatore dell’identità postcomunista traccia la triade: Resistenza, Sessantotto, Mani Pulite. Sono queste le “eccellenze” che consacrano nel film il lascito del Pci e il primato di chi è stato a fianco di Berlinguer da Occhetto a Bersani. Perché allora la sconfitta da parte di un Berlusconi? Perché questa “diversità” è stata interpretata e vissuta come “superiorità” guardando all’Italia – tra Gramsci e Pasolini – come a un campo da “rieducare”. I comunisti hanno conquistato le “casematte” (dall’editoria alla magistratura), ma i postcomunisti − con la loro triade antifascista, sessantottina e giustizialista − sono stati percepiti come sospetti “rieducatori”, espressione di un’Italia minoritaria e aggressiva e – alla fine – sostanzialmente immobilista: a) tutta Costituzione, Stato e istituzioni intoccabili; b) mondo del lavoro e della scuola solo diritti e pochi doveri; c) due pesi e due misure nel campo della giustizia a seconda delle posizioni politiche.
Si giunge così alla finale “rottamazione”. E il film di Veltroni, proprio con le sue scelte di regìa, ce ne dà un’eloquente spiegazione. Questo mondo ex comunista con il mito di Berlinguer che cosa è? Che idea trasmettono l’ex brigatista Franceschini che ci spiega che le Br erano manovrate da destra e l’ex socialista Scalfari secondo cui Berlinguer impersonava il liberalsocialismo? Veltroni intervistandoli insieme agli altri, da Macaluso a Tortorella, tutti sempre seduti in terrazza, quasi in carrozzella, vicino alla stessa balaustra, sembra aver girato il film in un ospizio. “Partigiani”, “sessantottini”, “due pesi-due misure” sono ormai capolavori da cineteca. Battuti negli incassi da Silvio Berlusconi e archiviati da Matteo Renzi.