È possibile che non siamo così perspicaci da vedere nel Messico un modello di democrazia a cui ispirarci. Nei giorni scorsi abbiamo parlato di “sogno messicano” per Matteo Renzi e il “partito nazione” che sta creando. Abbiamo detto con un certo scetticismo che un sistema di quel tipo non sembrava adatto a un paese europeo e occidentale come l’Italia.
È vero che dopo 71 anni il Partito Rivoluzionario Istituzionale (quello di Pancho Villa, tanto per intenderci) è andato a un certo punto in minoranza e oggi, ritornato al potere solo con una maggioranza relativa, il presidente Enrique Pena Nieto governa mediante un “patto” con le opposizioni alla ricerca di un grande programma di riforme.
Ma storia, cultura, tradizioni, modelli che si sono affermati nel dopoguerra, non ci sembrano affatto appropriati per un’accoppiata Messico-Italia all’insegna di una tradizione democratica.
Eppure è da fine febbraio che l’autorevole Financial Times e un esperto di storia democratica e politica come il finanziere Davide Serra, ci consigliano di guardare al Messico. In sostanza, ci viene detto che Renzi non dovrebbe pensare a Barack Obama oppure a Tony Blair, ma a Pena Nieto che, con “un’ambiziosa agenda di riforme”, è riuscito a fare in modo che il Messico (considerato fino a un decennio fa quasi un narco-stato), stia “tornando nelle mappe degli investitori internazionali”. Cosa che all’Italia servirebbe. L’editorialista del Financial Times precisa anche: “Nel suo tentativo di conquistare i moderati italiani, Renzi potrebbe guardare altrove”. Al Messico appunto.
Sospendiamo a questo punto ogni giudizio, per rispetto verso il Messico, ma, con tutta la nostra modestia, difendiamo la diversità, anche l’anomalia italiana, quella del famoso “calabrone”, coniata da Pierre Carniti, che ci ha permesso di resuscitare da una guerra perduta e di decollare economicamente sino a diventare la quarta o la quinta economia mondiale. E allo stesso tempo, con tutti i limiti del sistema proporzionale e del bicameralismo perfetto, di restare ben saldi nel mondo occidentale, di essere tra i fondatori della Comunità europea e di essere stati una democrazia.
Ci dispiace tediare il lettore con continue citazioni di Giorgio Amendola. Ma nel 1976, quel “comunista eretico”, con Intervista sull’antifascismo a Piero Melograni, sosteneva che in Italia c’era stata più un’espansione economica che uno sviluppo equilibrato. Ma mai come in passato “gli italiani sono stati così liberi e hanno mangiato così bene”.
È evidente che sia passata un’epoca, che siamo in un contesto storico, nazionale e internazionale, del tutto differente.
Oggi si presenta un problema a due teste. Occorre affrontare e trovare una soluzione alla crisi economica, che è ancora profonda malgrado qualche debole segnale di ripresa. Ma l’altra faccia di questo problema è la crisi politica e istituzionale che ci stiamo trascinando dietro dal 1992, dove ci sarà stata pure una svolta di “richiesta etica”, ma si sono accumulate al contempo tante macerie che non si sa più come rigirarsi. In quel periodo che passa alla cronaca, e passerà alla storia come “tangentopoli”, si parlò di “rivoluzione di velluto”, non si sa proprio bene a quale proposito.
Di fatto, un’intera classe dirigente e ben cinque partiti politici democratici sono spariti dalla scena e in venti anni ci sono state tante “rassicurazioni” di nuovi protagonisti, ma non è stata attuata nessuna reale riforma istituzionale e un ricambio credibile di classe dirigente. Nello stesso tempo, si sono aperti problemi di ogni genere, come l’ormai cronico contenzioso tra politica e giustizia.
Di fatto, l’Italia non ha fatto altro che perdere tempo prezioso, mentre si accumulava un crescente risentimento verso la nuova classe politica e si affermava sempre di più una cultura di carattere giustizialista che aveva autentici toni giacobini. La crisi economica, cominciata negli Stati Uniti nel 2007, e poi esportata per contagio finanziario in tutto il mondo, ha fatto letteralmente da detonatore all’aggravarsi della crisi generale.
Quello che è accaduto in questi ultimi tre anni è in fondo il “frutto” di tutto quello che bruciava sotto la cenere negli ultimi venti anni. Dall’estate del 2011 è entrato in declino il “berlusconismo”, probabilmente in modo irreversibile. Si è fatta la scelta, piuttosto discutibile, di un “governo dei tecnici” che ha imposto misure recessive in un periodo di recessione. Si è passati sotto le “forche caudine” di elezioni politiche che hanno sancito, caso forse unico in Occidente, la clamorosa affermazione di un partito politico che rivendicava quasi l’antipolitica. Si sono persi due mesi per costituire un governo di maggioranza, per ripiegare poi su un governo di larghe intese. Si è nominato un presidente del Consiglio per poi sostituirlo con un altro, senza alcuna consultazione popolare, se non quella delle “primarie” del Pd.
Se si guarda solo a questa sequenza si resta impressionati da come oggi l’Italia (solo in base a elezioni europee) conti, con l’indubbia popolarità di Matteo Renzi, su un nuovo apparente assestamento rassicurante.
Ma ci permettiamo di dire che questa rassicurazione non è sufficiente per intravedere una via d’uscita di grande riforma istituzionale e politica italiana. Pensando a un Paese che abbandona il bicameralismo e si incammina verso una riforma di stile maggioritario, il problema resta l’alternativa, il bipolarismo, il gioco democratico che vede maggioranza e opposizione in perenne dialettica tra loro e la possibile alternanza al potere.
L’incredibile successo popolare di Renzi sembra invece far svanire, in questo momento, una possibile alternativa. Il centrodestra è disastrato, il partito nato con il “governo dei tecnici” si è dissolto, la Sel di Nichi Vendola sta confluendo nel Pd, la Lega Nord e lo stesso Movimento 5 Stelle trattano o cercano di trattare con Renzi. È legittimo chiedersi che cosa stia accadendo?
L’impressione è che dopo la “parodia” giacobina di questi ultimi venti anni, si stia assistendo a una sorta di “parodia” del vecchio Termidoro, quando Paul Barras spedì sulla “charrette” anche Maximilien Robespierre, in nome della fine del Terrore. Ovviamente qui non c’è nessuna “charrette” e nessuna ghigliottina, per fortuna. Ma l’apertura di Renzi ai moderati, il consenso che trova nel Paese, la stessa rassicurazione che infonde sui protagonisti economici ha tutto il sapore di una “parodia” termidoriana, con un abbassamento dei toni giustizialisti e un tentativo di rilanciare la fiducia nel Paese.
Che cosa può accadere dopo una simile fase politica? Possiamo essere sicuri che non ci sarà un 18 brumaio e neppure un Bonaparte dietro l’angolo. Ma il rischio fondato di una “democrazia” ancora zoppa, malgrado le riforme che si stanno varando c’è tutta. Prima delle norme e delle leggi, della stessa forma di Stato, esistono le grandi organizzazioni sociali, i partiti anche se rinnovati, le consuetudini delle società civili che determinano e decidono il corso della storia e ne condizionano lo stesso assetto istituzionale. Dovrebbe saperlo anche l’editorialista del Financial Times, quello che ci consiglia di guardare al Messico, che nel suo Paese non c’è neppure una costituzione scritta.