E all’improvviso il ripristino dell’immunità parlamentare si trovò orfana. Forza Italia e Partito democratico si rimpallano la responsabilità di averla voluta reintrodurre per i senatori. Tutto scaricato sui due relatori, Anna Finocchiaro e Roberto Calderoli. E adesso si tratta di stabilire per quale ragione si sia sollevato un tale polverone e, soprattutto, a chi convenga.



Difficile non pensare che qualcuno si auguri che si tratti di un grimaldello per far saltare tutto. La velocità della presa di distanza fa capire come la posizione dei maggiori partiti non sia cambiata: la volontà di fare le riforme è confermata. Ma il fatto che in entrambe i campi vi siano posizioni differenti, autorizza cattivi pensieri. Per l’immunità, ad esempio, si schiera Daniela Santanchè, su una posizione diametralmente opposta a quella di Paolo Romani. All’opposto, nelle fila dei democratici, vi sono alcuni contrari alla riforma nel suo complesso che si stanno preparando a battersi per la completa abrogazione dell’immunità, anche per i deputati, nella speranza che il testo venga modificato alla Camera, così da fare ricominciare l’iter da capo e allungare i tempi. Per questo Guerini e la Boschi si sono affrettati a derubricare la questione a “non centrale”.



Sbaglia, infatti, chi suppone che il percorso delle riforme sia già segnato, e pronto ad infilare una comoda discesa. Anche i contraenti maggiori nutrono dubbi. Fra i democratici, in primo luogo, dove in molti non perdonano a Renzi di essersi seduto allo stesso tavolo di Berlusconi. E fra gli azzurri crescono le perplessità per il meccanismo di composizione di un Senato che rischia di diventare un monocolore rosso. Certo, alcune delle richieste degli azzurri sono state accolte, come la netta diminuzione del numero dei sindaci, ma ci sono alcuni punti che non convincono affatto. La prima richiesta di modifica rispetto al testo dei relatori riguarda un voto nei consigli regionali che sia proporzionale ai voti di lista e non alla composizione, che non si tenga conto cioè dei premi di maggioranza. La seconda il reinserimento dei delegati regionali nel meccanismi di elezione del Capo dello Stato: in caso contrario la maggioranza dei deputati potrebbe eleggere il presidente della Repubblica senza bisogno di alcun accordo.



In un clima del genere i primi passi del processo riformatore saranno i più delicati e i più difficili. Si comincia mercoledì, termine ultimo per la presentazione in commissione Affari Costituzionali al Senato dei subemendamenti al testo proposto dai relatori. Nello stesso giorno è fissato l’incontro fra i democratici e i 5 Stelle, che hanno fatto il gesto di entrare in partita con il preciso intento di dimostrare di essere stati esclusi. Non può finire in altro modo, non si può cambiare partner all’ultimo minuto, come ha spiegato Maria Elena Boschi. Così il confronto sarà un delicato esercizio di retorica sotto l’occhio vigile della telecamera dello streaming.

Retorica, e nient’altro, a denti stretti al Nazareno lo ammettono. Si è lanciato un timido segnale di apertura sulle preferenze solo perché è brutto sedersi intorno a un tavolo non avendo alcunché da discutere. In realtà, lo stato maggiore democratico è perfettamente conscio che l’opposizione di Berlusconi sulle preferenze è totale, e riaprire questo capitolo vorrebbe dire fare saltare tutto. 

Non è affatto questa l’intenzione di Renzi, che ha bisogno di fare le riforme per sancire l’inizio di un nuova epoca, la sua. In aula avrà il suo da fare a tenere uniti i recalcitranti senatori democratici. Ma i rischi maggiori li correrà quando, dopo la prima lettura della riforma costituzionale, si metterà mano alla legge elettorale, già approvata a Montecitorio. Sull’Italicum la strada si farà davvero stretta, perché la Lega, favorevole sul Senato e sul titolo quinto, ha già annunciato battaglia senza quartiere. Di conseguenza, i democratici non potranno prescindere dal consenso di Forza Italia per evitare l’accusa di avere fatto una legge elettorale a colpi di maggioranza. 

La porta stretta delle riforme passa quindi per il varo dell’Italicum, perché se dovesse saltare, l’intero impianto riformatore si sfalderebbe come un castello di carte. E questo non possono permetterlo né Renzi, né Napolitano.