La polemica di questi giorni sull’immunità o meno da attribuire ai membri del nuovo Senato che scaturirebbe dalla riforma costituzionale nasce dal fatto che il testo predisposto dal Governo (di cui il ministro Boschi è strenuo difensore) non la prevede (attribuendola solo ai deputati), mentre l’emendamento proposto dai relatori Finocchiaro e Calderoli sì. 



Si tratta di una polemica che assume rilievo non solo dal punto di vista scientifico, ma altresì sotto il profilo politico, soprattutto dopo il recente scandalo veneziano del Mose, poiché l’immunità che si tratterebbe di attribuire o meno riguarda propriamente quei senatori che per diventare tali dovrebbero essere o sindaci, oppure presidenti di regione o membri di un consiglio regionale e coprirebbe inevitabilmente gli atti illeciti (tutti gli atti illeciti, nessuno escluso) compiuti durante il periodo di mandato parlamentare. 



Ma procediamo con ordine, anzitutto rammentando alcuni elementi, forse noti, ma indispensabili alla comprensione del problema. Per semplicità di esposizione partiremo dal testo governativo  richiamando gli emendamenti Finocchiaro-Calderoli solo sui punti più caldi. 

In primo luogo il nuovo Senato non sarebbe più eletto direttamente dai cittadini, bensì dai Consigli regionali o da assemblee di sindaci appositamente costituite. In secondo luogo tali assemblee non potrebbero eleggere chiunque, ma solamente sindaci o membri di consigli regionali. In terzo luogo del nuovo senato farebbero obbligatoriamente parte i presidenti delle giunte regionali e i sindaci capoluogo di regione. In quarto luogo la carica ricoperta di sindaco, presidente di giunta o consigliere regionale non solo non si perde diventando senatori ma, al contrario, si perde la carica di senatori se viene meno la prima. In altri termini il sindaco eletto senatore rimane sindaco sino alla scadenza del suo mandato e quando scade da sindaco scade anche da senatore.  



Soprattutto questa ultima regola è essenziale alla comprensione del problema: senatori si diventa in quanto titolari di un’altra carica, che non si perde ma si somma a quella di senatore, ed anzi è la condizione essenziale per rimanere senatore. 

E veniamo all’immunità. Il testo del Governo prevede che l’immunità (politica e penale) sia riservata ai soli componenti la Camera dei deputati. Nell’ottica governativa è una scelta abbastanza comprensibile, perché il senato in quel testo non è una vera e propria camera del Parlamento (infatti viene denominata Senato delle autonomie), bensì, come ha giustamente sottolineato Alessandro Mangia su queste pagine, una sorta di Conferenza Stato-Regioni costituzionalizzata. Nel testo governativo, in sostanza, il vero Parlamento è la Camera dei deputati e il Senato delle autonomie collabora alla sua attività legislativa, oltre a svolgere altre funzioni.

L’emendamento Finocchiaro-Calderoli nasce da un’altra concezione del senato: ed infatti in quel testo si propone di continuare a denominare il senato come Senato della repubblica. In questa ottica, in sostanza, il senatore, indipendentemente dalla carica da cui proviene, al momento dell’elezione diventa un parlamentare a tutti gli effetti, quindi coperto da immunità politica e penale.

Non v’è dubbio che il principio cui si ispira l’emendamento Finocchiaro-Calderoli ha una motivazione convincente: non ci possono essere parlamentari di serie A e di serie B. Il principio di garanzia deve valere per tutti allo stesso modo. Per cui immunità per tutti o immunità per nessuno. 

Tuttavia questo giusto principio, se portato alle sue estreme conseguenze, si scontra con due problemi enormi. 

Il primo e più rilevante è che quell’immunità coprirebbe tutti gli atti compiuti durante il mandato parlamentare (nell’emendamento non si distingue) con la conseguenza che un sindaco, divenuto senatore, che compisse atti penalmente illeciti nella gestione del Comune di cui fosse a capo, sarebbe coperto dall’immunità penale da senatore. In altri termini, se la riforma costituzionale fosse già varata e contenesse questa norma e se il sindaco di Venezia Orsoni (prima delle sue dimissioni) e Galan fossero senatori eletti con quel meccanismo, oggi potrebbero invocare l’immunità e, dunque, richiedere autorizzazione al Senato per l’arresto e tutte le altre forme di restrizione della libertà personale previste dalla norma costituzionale (ispezioni, sequestri di materiale, intercettazioni… ).  

Il secondo  problema è che attualmente l’art. 122 della Costituzione prevede che i consiglieri regionali siano coperti solo da immunità politica e non penale. Se fosse approvata la norma suddetta sull’immunità potremmo arrivare al paradosso che i consiglieri regionali divenuti senatori avrebbero una immunità diversa da quella dei non divenuti senatori. Peggio ancora potrebbe succedere che uno stesso fatto illecito se compiuto da un consigliere-senatore sarebbe coperto da immunità e se compiuto da un semplice consigliere no. Dubito che questo renda costituzionalmente illegittima la norma sull’immunità, perché contrastante con uno dei nostri principi fondamentali: l’uguaglianza. 

Dunque, come uscirne? 

Personalmente ritengo che l’immunità sia espressione di civiltà giuridica e che sia stato un grave errore limitarla fortemente nel 1993. Non sono casi teorici quelli di accanimento giudiziario nei confronti di uomini politici, al contrario. Come non sono teorici i casi di magistrati d’assalto che sposano successivamente cariche politiche, anche assai prestigiose. Dunque, l’immunità deve rimanere, ma a sua volta non può contrastare con altri principi di civiltà giuridica, come quello di poter perseguire gli illeciti penali commessi dai politici abusando della propria posizione (vedi il caso Mose). 

A questo punto vedo solo due strade possibili per risolvere la questione, almeno dal punto di vista costituzionale. 

O l’elezione a senatore produce il venir meno della prima carica, e a questo punto nessun problema sorge poiché il soggetto in questione ha il solo status di senatore.

Oppure si mantiene l’attuale impostazione, ed allora sarebbe opportuno che si limitasse l’immunità penale ai soli atti compiuti nell’esercizio e a causa delle funzioni da senatore. Se ad esempio nei confronti di un sindaco-senatore viene iniziato un processo penale, se i fatti o gli atti che gli si imputano li ha commessi nella sua qualità di sindaco l’immunità penale non scatta (ed anzi sarebbe bene che si dimettesse, scadendo così anche dalla carica di senatore), dunque l’autorità giudiziaria non dovrebbe chiedere autorizzazione per gli atti di limitazione della libertà personale. Se, invece, il fatto o l’atto sono riconducibili alla funzione di senatore dovrebbe scattare l’immunità, con tutte le garanzie del caso. 

Mi rendo conto che è una soluzione più complicata sia del testo del Governo, sia dell’emendamento Finocchiaro-Calderoli, ma i principi o si rispettano o non si rispettano. Non si possono rispettare a metà.