Le elezioni europee hanno rafforzato il governo Renzi. Ma per quale politica? Con le osservazioni della Commissione europea, si parla in modo pressante di misure di riallineamento e di riforme: aumento della tassazione, sulla casa (Tasi) e sui consumi (Iva), e privatizzazioni, cioè vendita di capisaldi della nostra struttura economica pubblica. 



Perché queste indicazioni da parte della Commissione? Non ci dimentichiamo che abbiamo sottoscritto il Fiscal compact e introdotto in Costituzione il pareggio di bilancio. 

Rispetto agli impegni assunti il governo Renzi ha chiesto un anno di proroga e la Commissione lo ha concesso, ma questo non è un rimandare, bensì una bocciatura e siamo costretti “a ripetere l’anno”. 



Questa circostanza, in Europa, tra le istituzioni e in particolare in seno al Consiglio europeo, ha reso irrilevante il successo elettorale del premier. Renzi sarà promosso, se centra due obiettivi: la riduzione di una quota del debito (circa 45 miliardi di euro) e il raggiungimento del pareggio di bilancio che consta di almeno altri 2,5 punti di Pil. Questo nel 2015, ma anche nel 2016 e negli anni successivi. Si tratta di una limitazione finanziaria enorme per l’Italia.

Sin qui l’Unione europea, che detta la linea dei compiti, ma che non considera affatto i problemi di cui è portatrice: uno standard democratico insufficiente, una moneta senza copertura politica, un asservimento al mercato e agli operatori finanziari, eccetera. L’Unione europea non è amata dai cittadini europei, e a ragione: si finge un’istituzione tecnica e neutrale posta a salvaguardia del funzionamento del mercato interno; per contro, pretende l’amore per il sovrano assoluto da parte del popolo, quando i cittadini europei si lamentano della sua lontananza e indifferenza rispetto ai loro problemi. Ma come diceva Delors: “Non si può amare un mercato!”



Dubito, però, che il nostro governo possa riuscire a fare modificare le regole del Fiscal compact. 

Non resta, perciò, che considerare i “compiti” dell’agenda europea come il vero problema costituzionale della Repubblica Italiana.

Da questo punto di vista la sensazione è che il dibattito interno distragga l’opinione pubblica dall’impegno che lo stare in Europa comporta.

Il Governo dovrebbe fare di tutto perché si rimetta in moto la crescita economica: una spesa pubblica che aumenti i consumi e realizzi investimenti infrastrutturali e innovazione, che ammodernino il Paese e lo rendano competitivo. Il debito e il deficit sono punti importanti di questo ipotetico progetto, ma gli obiettivi europei non possono essere perseguiti con i tagli o drenando altre risorse dalle tasche dei cittadini, bensì con l’efficienza e tornando a produrre ricchezza. 

È a questi fini che servono le riforme. Ma quali? Soprattutto quella dell’amministrazione. 

Poi, bisognerebbe pensare alla riforma delle regole per imprese e lavoratori: le agevolazioni e gli ammortizzatori sociali, che dovrebbero essere cambiati con forme di collaborazione e di solidarietà, preservando gli interessi sociali. Infine, visto che siamo all’inizio della programmazione europea, sarebbe utile considerare un uso razionale e strategico delle risorse rese disponibili dai fondi strutturali per il nostro Paese. 

Invece, siamo ancora presi dalla riforma del Senato: chi lo vuole alla francese e chi lo vuole all’austriaca; dalla ricentralizzazione delle competenze che riduce le Regioni a grandi dipartimenti amministrativi; dalla sostituzione delle Province con gli “enti di area vasta” (sic!); e dalla legge elettorale con il ballottaggio che – a prescindere d’altro – si porterebbe via un altro pezzo della nostra democrazia.

Già, perché tutto nel dibattito interno sta ruotando – senza la dovuta attenzione – attorno a questa dissoluzione della democrazia, con la riduzione della rappresentanza politica a livello nazionale, regionale e locale.

E una volta compiuta la distruzione della democrazia? Sarà possibile consegnare il Paese nuovamente allo straniero, che comprerà l’Enel, l’Eni, Finmeccanica, ecc.

Tutti i governi passano e sono consegnati alla storia. È auspicabile che l’Italia resti.