Ogni monarca che si rispetti ha una sua guardia pretoriana. E i pretoriani, si sa, per loro stessa natura sono più realisti del re. È la situazione in cui è finito il sottosegretario Luca Lotti, che si è letteralmente arrampicato sugli specchi per negare che Giorgio Orsoni, sindaco di Venezia finito agli arresti domiciliari per le tangenti Mose, appartenesse al Partito democratico. 



Matteo Renzi è più lucido dei suoi fedelissimi, e – di conseguenza – ha evitato di nascondersi dietro a un dito: ha detto chiaro dal palco di Napoli che chi ruba va a casa a calci nel sedere, che sia del Pd o di qualsiasi altro partito. La sua frase chiave è “non c’è Pd e non Pd, ci sono ladri e non ladri”.



Tutti avvertiti in casa democratica: nessuno sarà difeso alla morte, chi viene colto in fallo non può essere difeso. Orsoni non è il primo caso, è accaduto anche sulla richiesta di arresto per il deputato Francantonio Genovese, ex sindaco di Messina, uno dei primi signori delle tessere che nell’Isola si sono schierati dalla parte dell’ex sindaco di Firenze.

Renzi non può permettersi di attardarsi nella difesa di qualcuno della vecchia guardia che ha sbagliato, neppure se si trova in debito di un sostegno ricevuto durante la sua ascesa. Linea dura quindi, ammissione delle colpe storiche della propria parte politica, da Primo Greganti che riemerge dalle nebbie di Tangentopoli in giù. Anche Orsoni, in fondo, si era scoperto renziano, e forse avrebbe sperato in un sostegno maggiore.



Discontinuità assoluta, di conseguenza, sul tema della legalità, con Debora Serracchiani che s’incarica di spiegare come la nuova guardia non vuole, né può fare sconti. Anche qui va decrittata una frase rivelatrice. Al Corriere della Sera, la numero due del Pd spiega: “In politica il ricambio generazionale è fattore di cambiamento. Noi dobbiamo ancora essere messi alla prova, ma facciamo politica in modo diverso. Abbiamo preso immediatamente posizioni chiare”. E il caso Genovese è portato a paradigma.

La diversità nel fare politica diventa una discriminante della costruzione del nuovo gruppo dirigente. Appuntamento il 14 giugno all’assemblea nazionale. C’è da ratificare la nomina a vicesegretario di Guerini e della Serracchiani, da ridisegnare la segreteria dopo che alcuni componenti sono traslocati al governo (Lotti, Madia, Mogherini e Boschi) e da definire il nuovo presidente del partito, dopo le dimissioni di Cuperlo. Tanta carne al fuoco, e nulla sarà semplice.

Renzi ha il vento del 41% nelle vele, ma non ha ancora il controllo pieno del partito, tantomeno dei gruppi parlamentari, e con questo stato di cose dovrà fare i conti sino alle prossime elezioni. La questione morale potrebbe diventare una maniera elegante per regolare qualche conto interno e obbligare a un passo indietro qualche esponente della vecchia guardia. Si pensi a uno Zoggia, potente proconsole veneto di Bersani, costretto a smentire di esser sfiorato dall’inchiesta Mose.

Ecco allora che nei corridoi di Montecitorio per la presidenza del Pd comincia a girare il nome di Nicola Zingaretti, presidente della Regione Lazio, la cui luce continua a brillare tanto più è in caduta libera quella del sindaco di Roma, Ignazio Marino, che la segreteria democratica ha ormai sostanzialmente abbandonato alla deriva, visto anche che gli elettori hanno saputo scindere le responsabilità dell’inquilino del Campidoglio dalle speranze accese dal premier. Si temeva un bagno di sangue a Roma, e invece è arrivato un trionfo. Una ragione in più per meditare intorno alla possibilità di riportare la capitale alle urne il prossimo anno.

Zingaretti, quindi, oggi appare in vantaggio sulle ipotesi di Epifani o di Paola De Micheli. E in segreteria i nomi più gettonati sono quelli di Orfini, Leva (per il settore giustizia), Morassut e Bonaccini. Non tutti sono renziani doc, ma sono tutti accomunati dall’essere piuttosto giovani e con un’immagine non logorata da altri incarichi rivestiti in passato. Servono a Renzi per dimostrare di avere coinvolto nella gestione della balena rosa tutte (o quasi) le sue anime. I dalemiani senza D’Alema, i bersaniani senza Bersani. Di loro, della vecchia guardia, non c’è più bisogno. E senza di loro, le aree che li esprimevano diventeranno ogni giorno che passa più renziane.

Una strategia inclusiva, insomma, che reggerà se il leader saprà evitare che si apra una competizione a chi è più renziano, magari fra Delrio e Guerini, o fra la Serracchiani e la Boschi, tanto per dire. Perché, come si diceva all’inizio, le guardie pretoriane sono insidie che ogni leader deve cercare in ogni modo di evitare.