È possibile il ripristino del bipolarismo oppure può cristallizzarsi, come già avviene in altri paesi europei, lo scenario di una “partita a tre”? Il dato di fatto è che Silvio Berlusconi ha dimostrato di essere forte quanto basta per non consentire un’altra leadership di centro-destra, ma non abbastanza per essere considerato un’alternativa realistica di governo. Si apre così uno spazio da “partito della nazione” per Matteo Renzi che somma all’elettorato tradizionale di sinistra anche un elettorato moderato impaurito dalla prospettiva di avere sulla scena europea il M5S primo partito in Italia. D’altra parte Beppe Grillo e Silvio Berlusconi appaiono sconfitti e quindi alle prese con divisioni interne, ma presentano un consistente “zoccolo duro” che potrebbe appunto stabilizzare una troika sulla scena politica italiana. 



Berlusconi ha perso terreno, ma può contare su un voto politico di destra e un voto sociale antitasse che rappresentano una base irriducibile abbastanza importante anche se nettamente minoritaria. Va anche ricordato che sulla sconfitta di Berlusconi hanno influito due handicap che forse non saranno permanenti. In primo luogo la condanna ai servizi sociali. Inoltre le ultime settimane di campagna elettorale sono state segnate dai telegiornali che – mattina e sera – avevano come prime notizie: l’ex ministro di FI a Regina Coeli; l’ex fondatore di FI a Beirut, il rappresentante di FI nel PPE a Opera, il leader di FI a Cesano Boscone. Quindi il cronista annunciava: “E ora passiamo alla pagina politica”. 



Ma i margini di recupero per Berlusconi non appaiono ampi. L’elettorato che lo ha lasciato per il Nuovo Centro Destra, indipendentemente dalle decisioni di Alfano, nella sua larga maggioranza è molto difficile che torni indietro: di fronte alla riconferma di una leadership berlusconiana scivolerà dietro a quella parte che è già andata con Renzi. Ciò che Berlusconi definisce “tradimenti” e “complotti” in sostanza è stata la sua incapacità di usare la più larga maggioranza mai vista nel parlamento repubblicano. L’ex Cavaliere si difende sottolineando che come premier non aveva poteri e che dal Quirinale alla Corte costituzionale passando per la Procura di Milano aveva un ventaglio di contro-poteri. Sarà anche vero, ma nessuna nuova legge elettorale che egli farà con Renzi muterà tale situazione. 



Da parte sua il leader del Pd ha tutto l’interesse al permanere della leadership di Berlusconi che ormai gli apre le porte nell’elettorato moderato, così come la leadership di Grillo – anch’egli impegnato in epurazioni – rappresenta uno sfogatoio rabbioso, ma non un’alternativa politica come emerge dal suo dividersi sull’allearsi con Farage o con i Verdi. Il vero “zoccolo duro” di Grillo è rappresentato dalla tragedia della disoccupazione giovanile.

Le leadership di Grillo-Casaleggio e di Berlusconi-Toti sono stabili senza rappresentare un pericolo immediato – una credibile alternativa di governo – per Renzi, che deve invece fare i conti con una realtà economica che non è certo modificabile con gli ottanta euro sventolati come reincarnazione del “deficit spending”.

L’euro oggi in crisi non è il parto degli “euroburocrati” di Bruxelles. La scelta della moneta unica senza Stato fu fatta in Italia a furor di popolo − anzi a furor di élites – da “Ulivo mondiale” a sinistra e “rivoluzione liberale” a destra, entrambi convinti della cosiddetta “fine della storia”, secondo cui il mondo intero era avviato su sicuri binari verso un unico modello di economia. Da destra e da sinistra si teorizzava il meno-politica e il meno-Stato nazionale esaltando le virtù del potere economico che senza, appunto, il giogo della politica e dello Stato nazionale avrebbe una sua energia e provvidenzialità tali da superare – in un modo o nell’altro − qualsiasi imprevisto e difficoltà. Questo è vero nel senso che prima o poi se ne uscirà; si tratta però di vedere se il risultato non siano una retrocessione e una irreversibile perdita di terreno nella competitività internazionale. 

Questa è la vera sfida che ha ora di fronte Matteo Renzi nel momento in cui, giocando “a porta vuota” in campo nazionale, assume la presidenza italiana del semestre in cui si decidono vertici e nuova politica economica dell’Unione Europea. Si tratta di non uscirne come “fanalino di coda”.