Il nuovo Senato che esce dalla Commissione Affari costituzionali sarà composto da 95 parlamentari rappresentativi di Regioni e Comuni e da cinque senatori scelti dal presidente della Repubblica. L’emendamento che lo stabilisce porta la firma del relatore Anna Finocchiaro, ma non di Roberto Calderoli. Nel testo dell’emendamento si afferma che i Consigli regionali “eleggono con metodo proporzionale i senatori fra i propri componenti e, nella misura di uno per ciascuno, fra i sindaci dei Comuni dei rispettivi territori”. Ne abbiamo parlato con Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica nell’Università di Bologna.
Che cosa ne pensa del testo approvato ieri dalla commissione Affari costituzionali di Palazzo Madama?
Nel momento in cui si sottrae potere decisionale agli elettori, la mia valutazione non può che essere negativa. Un conto è che il Senato non sia elettivo, cioè non eletto direttamente dai cittadini italiani, un altro è che sia nominato da chi ha un certo numero di seggi nelle varie Regioni. Se si abolisce l’elettività del Senato occorre trovare un qualche meccanismo che offra ai cittadini la possibilità di decidere sulla scelta dei senatori. Le soluzioni possono essere diverse, ma la sostanza è che si dà potere ai capigruppo dei partiti di ciascuna regione di scegliere i senatori. Ciò mi sembra francamente eccessivo, anche se coerente con il fatto che alla Camera i deputati saranno scelti a loro volta attraverso un meccanismo di nomina da parte dei capi dei partiti.
In che modo è possibile conciliare elezioni di secondo grado con un minimo di democrazia?
La soluzione era stata trovata, e consisteva nel fatto che in contemporanea all’elezione dei consigli regionali i vari gruppi presentassero dei candidati per il Senato. Gli elettori in questo modo avrebbero potuto votare non solo per i consigli regionali, ma anche per il Senato. E’ insomma l’alternativa del Bundesrat tedesco, in base a cui chi vince in un certo Land ha diritto a nominare un certo numero di persone. Naturalmente questa alternativa richiede che il numero dei senatori sia molto limitato, e rappresenta la soluzione più logica e semplice. Dopo un momento di maretta, alla fine è stato trovato un accordo.
Quanto conta che l’asse sulle riforme non si sia spezzato?
In linea di principio a me non importa che l’asse non si sia spezzato. Le riforme così come sono state congegnate tra Renzi e Berlusconi non possono funzionare. Le riforme non devono essere approvate semplicemente dai due capi-partito, bensì dal Parlamento. Sarebbe stato quindi necessario coinvolgere da un lato tutti i partiti che fanno parte del governo, dall’altra ascoltare e sottoporre delle proposte anche al Movimento 5 Stelle, che rappresenta pur sempre un quarto degli elettori italiani.
Eppure in commissione si è trovata un’intesa molto ampia…
Il dato di fatto è che le due principali riforme, quella del Senato e l’Italicum, sono entrambe brutte in quanto non danno potere agli elettori. Nessuno si è posto il problema di come evitare che ci sia una maggioranza che prende tutto, compresa la presidenza della Repubblica. Il sistema nasce squilibrato e trovare un riequilibrio non sarà affatto facile.
Secondo quali modalità lei ritiene che andasse coinvolto anche l’M5S?
L’M5S andava coinvolto quantomeno nella riforma della legge elettorale. In particolare una preferenza per la Camera dei deputati è non solo necessaria, ma assolutamente indispensabile. Nel 1991 gli elettori italiani votarono per una preferenza. I pentastellati hanno ragione anche per quanto riguarda le modalità di attribuzione del premio di maggioranza, che dovrebbe essere assegnato attraverso il ballottaggio tra i due partiti più votati. Se si va a un dibattito serio possono emergere proposte migliori della legge elettorale del governo prevista dal patto tra Renzi e Berlusconi.
(Pietro Vernizzi)