Per quanto il dibattito sulla battaglia per il nuovo Senato continui ad essere “la” notizia per un’informazione malata di politichese, in questi giorni la vera notizia politica è un’altra: ed è la legge delega, approvata giovedì dal Consiglio dei ministri, per una riforma destinata a cambiare profondamente, in tempi accelerati (sei mesi), il Terzo settore italiano.



Quando si parla di Terzo settore non si sta parlando di un pezzo di sistema “bello, generoso ma in fondo marginale”. Non è così, e i numeri del Censimento Istat resi noti nel 2013 lo hanno confermato in maniera sibillina: unico settore a crescere nell’Italia travolta dalla crisi (+28% in dieci anni), oggi pesa quasi il 5% del Pil e vale oltre 680mila posti di lavoro. 



È una premessa importante per capire che la riforma voluta dal Governo Renzi non è un premio, o meglio un risarcimento per i buoni, che in tantissimi ambiti della vita collettiva hanno surrogato le mancanze del sistema. La riforma invece va nella direzione di investire in modo organico su un settore che ha mostrato di essere trainante non solo dal punto di vista sociale ma anche da quello economico. Ed è una riforma che arriva a rivedere anche le fondamenta giuridiche di un settore che anacronisticamente veniva regolato da norme datate addirittura al 1942. 

Il primo articolo infatti mette sul tavolo il tema della revisione del libro primo, titolo II del Codice civile: in quell’assetto il Terzo settore vien considerato un insieme di soggetti non produttivi da tenere rigidamente separati dai soggetti societari ai quali era demandato il servizio d’impresa. Il risultato è che il Terzo settore è regolato oggi da una fiscalità cosiddetta di vantaggio, che in realtà finisce con il penalizzarlo, in quanto ad esempio marginalizza ogni attività commerciale. In sostanza, il Codice civile aveva concepito un Terzo settore in condizione di dipendere sempre, o dallo stato o dalla generosità del privato. Il cambiamento quindi sarà di sostanza, il fattore di distinzione sarà spostato sulle finalità perseguite e non tanto sull’attività svolta, commerciale o meno. Se la finalità è sociale, va da sé che il “profitto” vada misurato in questi termini, prima che in termini economici.



Tutti i punti della Riforma obbediscono a questa visione di un non profit “produttivo”. Anche la stabilizzazione, da tanto tempo attesa, del 5 per mille si accompagna ad un processo di revisione del dispositivo che ne aumenterà la trasparenza (quindi render noto cosa si è “prodotto” con i soldi avuti dai contribuenti) e ne diminuirà i punti di opacità. 

C’è poi nella riforma la grande scommessa del servizio civile ribattezzato “universale”. Universale significa che tutti i giovani tra i 18 e i 28 anni devono potervi accedere, senza la logica dei contingenti previsti dal sistema in vigore (in realtà sostanzialmente smantellato per mancanza di finanziamenti). 

Ma il servizio civile prevederà anche meccanismi nuovi, come il co-finanziamento da parte degli enti, e il riconoscimento e la valorizzazione delle competenze acquisite durante l’espletamento del servizio civile universale in funzione del loro utilizzo nei percorsi di istruzione e in ambito lavorativo. Verrà anche ridefinito lo status giuridico del giovane in servizio civile, non assimilabile al rapporto di lavoro e quindi non assoggettabile ad alcuna disposizione fiscale.

Ma forse le misure che meglio caratterizzano il senso della riforma sono quelle relative all’impresa sociale. Si confermano infatti le direttive di riforma della legge 155. La nuova impresa sociale potrà beneficiare di incentivi fiscali e avviare un processo di trasformazione che consentirà la distribuzione degli utili e degli avanzi di gestione, fermo restando l’«individuazione dei limiti di compatibilità con lo svolgimento di attività commerciali diverse da quelle di utilità sociale». Il ddl prevede, inoltre, la diffusione di “titoli di solidarietà” e altre forme di finanza sociale sulla scorta dei social bond, ovvero titoli a rendimento garantito con una quota destinata a un soggetto del non-profit.

Come ha scritto Alessandro Marzullo sul blog sul sito vita.it «se la riforma andrà in porto ci troveremo di fronte ad un cambio non soltanto normativo, ma culturale, economico e sociale che consentirà al non profit di finanziare i propri scopi di utilità sociale, attraverso lo svolgimento di attività commerciali». Infatti il vero discrimen tra not for profit e for profit, per intenderci, non sarà come mi finanzio (con donazioni private, contributi pubblici o attività commerciali) ma cosa finanzio: il mio personale profitto o invece lo scopo di utilità sociale.