Arriva l’ok definitivo dalla commissione Affari costituzionali sulla riforma del Senato. La riunione tra governo, maggioranza e Forza Italia ha stabilito che i senatori siano eletti dai Consigli regionali su base proporzionale, senza tenere conto dei premi di maggioranza previsti in ogni singola Regione. Il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, ha osservato che “è un momento straordinario. Non ho preoccupazione per il voto, anzi segnalo che tutte le previsioni dei gufi non si sono avverate”. Ne abbiamo parlato con Aldo Giannuli, politologo, saggista e professore dell’Università degli Studi di Milano.
Che cosa ne pensa della riforma del Senato che esce dalla commissione Affari costituzionali?
Siamo all’iper-maggioritario, perché ci siamo dimenticati che i consigli regionali sono eletti con una legge maggioritaria. Già c’è una prima manipolazione della rappresentanza perché non c’è un voto diretto dei cittadini, bensì di un consiglio eletto con il sistema maggioritario. All’interno di questo si votano dei listini bloccati. A questo punto è meglio riunire i capigruppo regionali di tutta Italia e dare loro dei pacchetti di candidati da votare. Quello che resta del Senato alla fine è un ente piuttosto inutile, e che sarebbe più dignitoso abolire.
La riforma ha riflessi anche sull’intera architettura istituzionale?
Il problema più serio è il riflesso che ha la riforma su presidenza della Repubblica e Corte costituzionale. Qui ci siamo dimenticati una cosa, e cioè che quando il costituente nel 1948 disegna quell’architettura presuppone il proporzionale. Introduce quindi una serie di norme che in qualche modo lo devono costringere a trovare un qualche accordo tra le forze politiche per l’elezione delle cariche di controllo e garanzia, quali sono appunto il capo dello Stato e la Consulta. Adesso si aboliscono i 58 consiglieri regionali che partecipavano all’elezione del presidente, si riduce il Senato a 95 persone, di cui quelle di nomina presidenziale non sono più a vita, ma sono il 5,5% dell’assemblea.
E quindi che cosa avviene?
Con l’Italicum che attribuisce alla maggioranza 254 deputati, basta avere nove senatori per eleggere il presidente della Repubblica e i giudici costituzionali di nomina parlamentare. Il capo dello Stato nomina gli altri cinque giudici costituzionali e in questo modo la maggioranza si aggiudica dieci seggi alla Consulta. Di fatto questo risultato equivale a un regime.
Per Renzi stiamo andando verso un modello tedesco. E’ veramente così?
No. In primo luogo l’Italia non è una repubblica federale, bensì uno Stato regionale. In secondo luogo il presidente della Repubblica in Germania ha poteri più ridotti, il Cancelliere ha maggiori poteri ma è sottoposto a determinati controlli e la Corte costituzionale funziona in modo diverso. Il Parlamento tedesco è eletto con un sistema rigidamente proporzionale, e l’unico limite è la soglia di sbarramento al 5%. Il modello tedesco non c’entra quindi nulla con la riforma del Senato di Renzi, chi lo dice o è in totale malafede o è un incompetente totale.
Perché è così categorico?
Perché la riforma del Senato si incrocia con l’Italicum, che è congegnato in modo tale che per assurdo basta l’8% dei voti per aggiudicarsi il 54% dei seggi. E’ molto peggio della legge Acerbo, voluta da Mussolini nel 1924, che almeno prevedeva che il premio di maggioranza scattasse qualora la lista più votata avesse almeno il 25%.
Ma alla Camera per avere il premio di maggioranza non è necessario il 37%?
Al primo turno, ma non al secondo. Se al primo turno nessun partito ottiene il 37% si va al secondo turno. A contare sono però i voti ottenuti al primo turno, i quali indicano il reale livello di rappresentatività. E siccome è possibile che a vincere sia non il primo arrivato bensì il secondo, magari al primo turno aveva solo il 20%.
(Pietro Vernizzi)