Matteo Renzi sta commettendo un errore dietro l’altro sulla scena europea: 1. dopo aver annunciato che il chiarimento sui contenuti era pregiudiziale alla definizione dell’organigramma, il premier italiano si è distinto nel rompere il fronte anti-Juncker e nel garantire immediato appoggio al leader “rigorista” della Merkel in cambio della Mogherini agli esteri; 2. ha poi debuttato nel Parlamento europeo attaccando “burocrati”, “banchieri” e la Merkel come “maestrina”, prospettando cioè la presidenza di turno come “sindacato” a tutela delle inadempienze e delle difficoltà del proprio paese. Risultato: il leader italiano alla presidenza di turno dell’Ue si trova sostanzialmente isolato avendo scontentato sia i filo-Juncker sia gli anti-Juncker. In che cosa consiste il “piede sbagliato”? Nel mettersi sulla difensiva, nel chiedere “flessibilità”, nel porsi come “palla al piede” dell’eurozona. 



La Merkel va contestata non in nome del minor rigore, ma della maggiore integrazione e unità europea. La presidenza italiana può avere “voce in capitolo” se parla nell’interesse di tutta l’Ue e cioè in termini di rilancio di quell’unificazione europea che è stata bloccata in questi anni dalla “ri-nazionalizzazione” patrocinata dalla Germania. La battaglia per un rilancio del ruolo della Commissione europea – per una presidenza “forte” sul modello di Delors (contro il suo esautoramento a vantaggio dei vertici degli Stati nazionali) – andava fatta e bisognava contrastare una presidenza di serie B, un nuovo Barroso, come si delinea Juncker. Senza un rilancio dell’integrazione anche il “ministro degli Esteri” (Pesc) vale quanto la presidenza di un’Ong, come è accaduto con la Ashton.



Comunque inutile attardarsi sul latte versato. Guardando al futuro occorre rendersi conto della ragione del degrado della Commissione e dell’unità europea. Il disastro è iniziato con l’allargamento gestito dalla Commissione Prodi. È lì l’origine di un’Unione invertebrata – spaccata tra eurozona (divisa a sua volta tra stati forti del Nord e deboli del Sud) e non euro (spaccata tra stati del G8 come la Gran Bretagna e sue ex colonie come Malta messi sullo stesso piano) – che l’ha portata disarmata all’impatto con la crisi del 2008. Non si tratta di errori personali di Prodi. A Bruxelles tutti si credevano all’inizio di una “Belle époque”. 



Ma la prima richiesta degli stati ex comunisti – questo è il punto – riguardava la propria sicurezza nel momento in cui perdevano la protezione del Patto di Varsavia. È così che l’allargamento dell’Unione europea è diventato un capitolo che è stato sottratto di mano agli europei ed è stato interamente gestito dalla Nato. La regìa e la contrattazione – dalla sicurezza territoriale ai sussidi economici prima garantiti dall’Urss – sono stati assunti in prima persona da Washington: prima si entrava nella Nato e poi, come premio, si aveva accesso ai fondi europei. Man mano che, uno per uno, gli Stati ex comunisti aderivano vi è stata l’irruzione degli Stati Uniti d’America nelle istituzioni e negli equilibri dell’Unione. Oggi lo Stato-guida degli “allargati” sono gli Usa. Basti pensare alla Polonia e al “pasticciaccio” ucraino determinato dal fatto che Putin si trova alla frontiera non gli europei, ma i generali americani.

Ha preso forma in seno all’Unione un “governo ombra” che non è più la diarchia franco-tedesca, ma quella tedesco-americana con la Germania che ha affiancato gli Usa (dando loro la necessaria agibilità nelle decisioni Ue) nella gestione dell’allargamento in quanto elemento centrale del proprio export. L’Europa a diarchia (peraltro conflittuale) tedesco-americana ha messo in contrasto allargamento ed integrazione: l’allargamento ai paesi dell’est ha bloccato i processi di integrazione europea mentre la Germania patrocina una ri-nazionalizzazione dell’Unione con il Consiglio europeo dei governi nazionali che umilia e affoga la Commissione di Bruxelles. La crisi esplosa nel 2008 ha visto la Commissione debole e la innaturale diarchia tedesco-americana consentire alla Germania della Merkel una “presa del potere” in termini di totale blocco dell’integrazione europea e di nazionalizzazione della crisi economica che ha investito il Vecchio Continente: nessuna risposta unitaria (v. eurobond) e “compiti a casa”. Persino nelle trattative per la “grande coalizione” in Germania la Merkel ha preteso dai socialdemocratici tedeschi l’impegno contro gli eurobond.

È quindi sul rilancio dell’integrazione europea (la flessibilità ne è poi naturale conseguenza) che può essere sviluppata una linea di svolta innovatrice capace anche di contrastare l’euroscetticismo. È in questa direzione che gli anziani “padri dell’europeismo” – da Helmut Schmidt a Jacques Delors – in questi ultimi anni e ancora in queste settimane hanno contestato la politica cosiddetta “rigorista” in quanto antieuropea, mettendo a rischio la sua stessa sopravvivenza se continua lo sbullonamento dell’Ue in quattro pezzi distanti e antagonisti. 

Espressione, ma anche interpretazione non passiva, della Ue a diarchia tedesco-americana è la presidenza della Bce di Mario Draghi. Il governatore della Bce ha appunto avvertito anche in questi ultimi giorni che il piagnisteo sulla “flessibilità” è una battaglia persa e che bisogna puntare sull’integrazione contro la ri-nazionalizzazione. Non si capisce però perché Matteo Renzi, nell’assumere la presidenza dell’Ue, ignori e snobbi la presidenza italiana della Bce che ha dimostrato di essere il punto di forza di una politica che guarda anche alla crescita. 

La presidenza di turno di Renzi è ancora ai primi passi: quel che conta è avere strategia di rilancio e sistema di alleanze (tra stati e nelle istituzioni). Altrimenti si hanno posti (secondari), ma non risultati.