Nel passato non lontano in cui alla prospettiva del federalismo e della sussidiarietà si prestava (almeno a parole) grande attenzione nel dibattito politico italiano, quando anche molti convinti assertori dello statalismo stavano in silenzio al riparo della bandiera federalista in attesa che passasse l’onda, c’era qualcuno che con meritevole schiettezza non esitava a difendere a viso aperto il tradizionale statalismo italiano. Si trattava in genere, e non a caso, di personalità nate e cresciute politicamente nel Psi, come ad esempio Giuliano Amato. Quella del socialismo italiano infatti è una tradizione politica la cui più antica e salda radice risale al riformismo illuminato del ‘700. L’influsso marxista, ormai svanito, è successivo.
Tanto più in un tempo come l’attuale, in cui lo statalismo sta riconquistando posizioni a grandi passi, non sorprende perciò che una personalità politica pure nata e cresciuta del Psi, come il senatore del Nuovo Centro Destra Maurizio Sacconi, giudichi le riforme costituzionali presentate al Parlamento dal governo Renzi, la cui impostazione neo-centralista è evidente, come una positiva correzione dell'”albero storto del federalismo”.
Nella precedente stagione di riforme, compiutasi con le innovazioni introdotte nel 2001, i difensori dello status quo erano comunque riusciti a far nascere storto l’albero del federalismo. E adesso, sottolineando che è cresciuto storto, ne prendono spunto non per cercare di raddrizzarlo ma per tagliarlo. Complimenti per la loro abilità, ma senza dimenticarsi di esecrare la mancanza di visione del “partito federalista” che allora con andreottiana “concretezza” si accontentò di compromessi di corto respiro invece di cogliere fino in fondo e con forza l’occasione favorevole. Invece di puntare a testa bassa sulle competenze distinte (ossia esclusive) delle Regioni, e sulla piena responsabilità fiscale, si accettò il pasticcio delle “competenze condivise”, fonte certa di burocratizzazione, di paralisi operativa e di ricorsi che avrebbero trasformato la Corte costituzionale in una specie di assemblea legislativa spuria. Non meno grave fu la pratica rinuncia all’attuazione dell’articolo costituzionale sull’autonomia fiscale delle Regioni che, implicando anche la loro piena responsabilità finanziaria, avrebbe favorito il formarsi ovunque di un ceto politico regionale di qualità.
Con le riforme proposte dal governo Renzi siamo invece a un ulteriore spezzatino deresponsabilizzante di competenze fra Roma e le Regioni, ridotte in pratica a pseudo-prefetture. Viene dato poi al governo centrale il potere di privarle in qualsiasi momento di loro competenze in nome di un principio dallo sgradevole sapore mussoliniano: nientemeno che l'”interesse nazionale”. Tenuto conto di recenti episodi (citiamone uno per tutti, il caso Alitalia) c’è qualcosa non si sa dire se di più patetico o di più grottesco nella presunzione che Roma serva l’interesse nazionale meglio dei territori.
Apprendiamo per di più che il Nuovo Centro Destra è orgoglioso “di avere introdotto i costi e i fabbisogni standard”. Il criterio dei costi e dei fabbisogni standard è meglio che niente, ma non di più. Perciò arrivare ad esserne orgogliosi ci sembra un po’ esagerato. Tutta l’esperienza dimostra che i pochi risultati positivi, che nel breve periodo ne derivano, vengono poi subito sommersi da una crescita senza fine di controlli burocratici tanto onerosi quanto inefficaci.
L’esperienza dei Paesi dove la pressione fiscale a parità di servizi è largamente inferiore alla nostra dimostra che la spesa si razionalizza tirando innanzitutto la leva della responsabilità fiscale e non quella dei controlli. Dove ogni livello di governo raccoglie in proprio le imposte con cui finanzia la sua spesa, e dove chi spende meglio può far pagare meno imposte ai suoi cittadini, non c’è bisogno di costi standard: tutti, da nord a sud e da est a ovest, sono da ciò indotti a spendere meglio e tassare meno. A spingere chi governa a non buttare via i soldi non è la Guardia di Finanza, ma sono i cittadini che con il loro voto rimandano a casa chi spende troppo.
Colpisce in particolare il plauso al potere che si vuol attribuire al governo di Roma di “commissariare Regioni e Comuni quando viene meno l’equilibrio strutturale dei loro bilanci”: un potere il cui carattere neo-autoritario, o forse tardo-napoleonico è evidente. Nelle democrazie il potere di togliere la fiducia e quindi di non rieleggere chi ha governato male appartiene al popolo e non a un altro governo, fosse pure il governo centrale. Renzi ha buone intenzioni e grande capacità di raccogliere il consenso, ma nonostante tutto appartiene a un’area politica che tanto per idee quanto per interessi costituiti tira dalla parte opposta a quella dove vorrebbe andare lui.
Stando così le cose, invece di rincorrere il vecchio centrosinistra sulla strada fallimentare dello statalismo e del controllo centralizzato, Ncd farebbe meglio a premere con fermezza perché il governo imbocchi un’altra strada: quella della libertà responsabile delle persone e dei territori. Farebbe meglio insomma a giocare la parte dell’alleato forte per le sue idee e le sue esperienze anche al di là del suo attuale consenso elettorale (che in tal modo, la prossima volta, potrebbe pure crescere).