Nell’inaugurare l’altro giorno la Brebemi – la nuova autostrada di 62 chilometri che collega Milano a Brescia passando a sud di Bergamo (costruita in soli cinque anni per impulso di Regione Lombardia grazie a investimenti quasi esclusivamente privati, e senza alcun costo per lo Stato) – con la simpatica sfrontatezza che lo contraddistingue, il premier Matteo Renzi ha avuto il coraggio di indicare tanta efficienza come un esempio di ciò che, grazie alle sue riforme costituzionali, diventerà non più un’eccezione ma una regola. 



C’è di che restare trasecolati: se infatti tali riforme passeranno, le “infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto” torneranno alla competenza esclusiva del governo di Roma. Se fosse già stato così Regione Lombardia non avrebbe potuto affatto assumersi quel decisivo ruolo di promotore, di catalizzatore di risorse e di facilitatore della composizione degli interessi dei territori toccati dalla nuova grande arteria che invece ha potuto e saputo svolgere. Quindi la Brebemi, l’unica nuova autostrada costruita in Italia da trent’anni a questa parte, sarebbe ancora nel libro dei sogni.



Giornali e telegiornali ci parlano solo di riforma del Senato, ma sul tappeto c’è qualcosa che va ben oltre. Qualcosa che è comunque di importanza cruciale. Con la complicità di una stampa scritta e radiotelevisiva che canta quasi tutta in coro, si sta invece spacciando lo scontro in corso al Senato come una lite di cortile, una battaglia di retroguardia tra le forze della luce e un’oscura falange di “ostruzionisti”. E così ci si esime dallo spiegare il nocciolo della questione, che va comunque molto al di là di ogni possibile anche banale interesse immediato. 

Con un progetto che prevede la modifica simultanea di 44 dei 139 articoli della Costituzione, un terzo in quanto al numero ma ben di più nella sostanza, si mira a riaccentrare a Roma ogni potere riportando in pratica lo Stato italiano alla forma paleo-francese che aveva prima del fascismo. Troncato di netto il pur timido sviluppo verso quelle forme di autonomia e di sussidiarietà cui si orientava la Costituzione del 1948, si punta a riconcentrare a Roma tutte le decisioni di valore politico che poi una catena di comando di tipo prefettizio si incaricherebbe di calare in modo uniforme su tutto il Paese. Le Regioni vengono ridotte a super-prefetture, come bene si vede ad esempio nel caso della scuola con l’ordinamento scolastico che torna a essere una competenza esclusiva dello Stato mentre alle Regioni compete “l’organizzazione, in ambito regionale, dei servizi scolastici”. 



Scompaiono poi le Province ma non le prefetture, in modo che il prefetto torni di nuovo a essere il dominus del territorio, primo interlocutore e tutore dei sindaci per conto del governo centrale. Seppur non in sede di riforme costituzionali si è per di più parlato di riduzione del numero delle prefetture, anche fino a farle coincidere con i territori delle Regioni. A questo punto il prefetto diventerebbe quello che nell’antico regno di Francia era l’Intendente del Re.

In tale quadro il nuovo Senato, detto con involontaria ironia “delle autonomie”, è esattamente l’opposto di quanto si vorrebbe far credere. Si tratta in effetti non di un presidio delle autonomie bensì di una cinghia di trasmissione delle decisioni del governo centrale al territorio, e alle Regioni in particolare; insomma di un utile complemento di quella catena di comando prefettizia di cui si diceva. Nello spazio di una sola pagina, la pagina 5, nella relazione accompagnatoria del disegno di legge di riforma per delineare il ruolo del Senato la parola “raccordo” viene ripetuta quattro volte. Il nuovo Senato vi viene definito “sede di raccordo tra lo Stato e gli enti territoriali”, “raccordo tra lo Stato e le regioni, le città metropolitane e i comuni”, “raccordo tra lo Stato e il complesso delle Autonomie e di garanzia di equilibrio del sistema istituzionale”, “raccordo tra lo Stato e il complessivo sistema delle autonomie” (…). E non si esita ad aggiungere che i nuovi senatori  dovranno ispirarsi a “una logica (…) intesa a ricomprendere, superandoli tuttavia, sia gli equilibri politico-partitici, sia quelli di rappresentazione di interessi di carattere meramente territoriale”.

Si potrebbe aggiungere anche molto altro, ma per questo rimandiamo chi voglia saperne di più a leggersi sul sito web del Senato il testo della progettata riforma, ovvero il disegno di legge n.1429, “revisione della parte seconda della Costituzione”, nonché la relazione che lo precede. Ci basti qui per concludere citare la “norma di chiusura del sistema” ovvero l’introduzione di “una «clausola di supremazia» in base alla quale la legge statale, su proposta del Governo (…) può intervenire su materie e funzioni che non sono di competenza esclusiva dello Stato allorché lo richiedano la “tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica o lo renda necessario la realizzazione di programmi o di riforme economico-sociali di interesse nazionale”. Ricordato questo, ci pare che non vi sia bisogno di aggiungere altro.

Concordi, al di là di ogni altra differenza, nel convincimento che la strada dell’autonomia responsabile e della sussidiarietà non si attagli al popolo italiano, e ritenendo che l’ammodernamento dello Stato si possa fare solo giocando la carta dello statalismo e quindi di un forte potere centrale, Matteo Renzi, Silvio Berlusconi e Giorgio Napolitano stanno cercando di promuovere una riforma costituzionale in armonia con tale loro convincimento. Fin qui in linea di principio non c’è niente di male. C’è gente che, come noi, lo ritiene un catastrofico errore, ma è un’ipotesi possibile. Non va bene però che per far passare ad ogni costo questa riforma si cali un muro di silenzio sul suo contenuto, impedendo alla gente di capire quale sia la vera posta in gioco. Ferma restando l’urgenza delle riforme, quella che ci vogliono far trangugiare non è affatto la migliore riforma possibile. È una riforma pessima che, senza risolvere alcuno dei gravi problemi che già affliggono il nostro Paese, ne aggiungerebbe anzi dei nuovi. Rivendichiamo il diritto di dirlo forte e chiaro.