Un solo dato è certo: sarà impossibile rispettare la data dell’8 agosto per il voto finale del Senato sulla riforma della Costituzione. Si può contingentare il dibattito, ma nulla può far decadere gli emendamenti. A quella data potrebbero rimanerne da votare ancora qualche migliaio. Matteo Renzi ne è così conscio da aver cominciato ad ammorbidire i toni, che si sono fatti molto meno ultimativi, sino a ipotizzare uno slittamento.
Ma il premier non ha ancora preso la decisione finale. Il bivio è di quelli cruciali: o trattare per arrivare al ritiro degli emendamenti, oppure fare muro, andare dritto senza concessioni, alla ricerca dell’incidente che potrebbe portare alle elezioni in autunno. Anche il ristretto cerchio magico renziano è percorso da una lacerante divisione, fra chi – come Giachetti – non perde occasione per invitare il premier/segretario a strappare e correre verso le urne, e chi – al contrario – preferirebbe evitare la soluzione traumatica, a costo di fare qualche concessione.
Capofila di chi vorrebbe evitare il voto nel bel mezzo del semestre di presidenza italiana dell’Unione Europea è senza dubbio il presidente della Repubblica. E la smentita che si è sentito in dovere di fare alle voci intorno a pressioni telefoniche su “parlamentari ribelli” (virgolette nel comunicato del Quirinale) confermano che un’opera di mediazione c’è, anche se magari non vede impegnato in prima persona il capo dello Stato. Sulla vicenda dell’ostruzionismo Napolitano proprio questa settimana è stato chiaro: impedire una decisione danneggia il prestigio dell’istituzione parlamentare, ha detto il presidente.
Oggetto delle pressioni più forti perché ammorbidisca il suo ostruzionismo è Sel, cui si devono la stragrande maggioranza degli emendamenti in campo. Ma Vendola e la De Petris sono stati chiari: disponibili a scendere a più miti consigli, solamente in presenza di concessioni significative su punti qualificanti, come ad esempio l’elettività del Senato. Non a caso gli esperti si esercitano da giorni su un ampio ventaglio di ipotesi intermedie, come l’elezione dei senatori contestuale a quella dei consigli regionali. Non è facile però trovare una formula che stia bene a tutti ed eviti a qualcuno (in primis Renzi) di perdere la faccia.
Alla decisione finale il presidente del Consiglio arriverà la prossima settimana. Forte, oggettivamente, la tentazione di monetizzare i consensi elevatissimi che i sondaggi gli assegnano, ma che potrebbero cominciare a scemare di fronte a una economia che non ne vuol sapere di riprendersi. Dopo il voto, con qualsiasi sistema elettorale, compreso il Consultellum, i gruppi parlamentari democratici sarebbero allineati al suo volere. Anche le formazioni centriste finirebbero per uscire fortemente ridimensionate (quando non cancellate), e i grillini marginalizzati. E se proprio fosse necessario un supporto numerico, basterebbe un’intesa diretta e a due con Forza Italia, tagliando fuori tutte le altre formazioni.
Non a caso Silvio Berlusconi, rinfrancato dalla sentenza di assoluzione in appello nel processo Ruby, sta cominciando a riannodare le fila di un centrodestra sfilacciato come non mai. Un processo graduale, ha proposto il leader di Forza Italia, con rispetto per la storia di ciascuno. Obiettivo dichiarato non mettere in piedi un semplice cartello elettorale, anche se arrivare a un programma comune non sarà affatto facile.
Lo dimostrano le bordate quotidiane che si scambiano Alfano e Salvini. Se il ministro dell’Interno assicura che non sarà mai alleato con un Carroccio xenofobo, l’europarlamentare chiede ogni giorno le dimissioni del titolare del Viminale, accusandolo di totale immobilismo nel contrasto all’immigrazione clandestina. Ma Alfano va anche più in là, chiedendo a Berlusconi la garanzia che la sua gracile creatura (che il 25 maggio ha faticato a passare il 4%) non sarà strangolata nella culla. E la replica di Toti, che si lamenta di un Ncd tentennante di fronte alla mano tesa del suo leader, fanno capire che l’ex delfino sarà il più strenuo sostenitore della necessità di portare a termine il piano dei 1000 giorni di Renzi, così da avere più tempo per far crescere la sua formazione politica. Sulla stessa lunghezza d’onda è De Poli che da casa Udc accusa Berlusconi di essere rimasto fermo allo schema del 1994 della Casa delle Libertà. E D’Alia vi aggiunge la richiesta che Berlusconi ceda lo scettro a un nuovo leader, come peraltro ripete in continuazione Quagliariello.
La tela per la ricomposizione del centrodestra è quindi fragile e praticamente ancora tutta da tessere. Certo, ci sarà una forte accelerazione qualora dovesse essere chiaro che Renzi ha scelto la via del voto anticipato. Ma i centristi debbono fare attenzione a non tirare troppo la corda. Se Berlusconi dovesse essere messo di fronte alla scelta secca fra Alfano e Salvini oggi non avrebbe dubbi, e si schiererebbe con la Lega: porta molti più voti di Ncd e Udc messe insieme e consente di restare al governo di Lombardia e Veneto. E proprio in terra veneta a primavera, quando si tornerà a scegliere il governatore, si potrà fare il punto sul nuovo centrodestra. A meno che gli eventi precipitino e alle elezioni politiche si andrà prima della fine dell’anno.