Il percorso parlamentare della riforma Renzi-Boschi si è fatto più difficile, e come prevedibile le difficoltà sono sorte appena il Senato si è potuto esprimere col voto a scrutinio segreto. E ciò, a testimonianza della centralità politica della battaglia procedurale che si è svolta sull’ammissibilità del voto segreto: appena liberi di esprimersi senza il timore di subire una possibile sanzione (essenzialmente quella di non vedersi ricandidati alle prossime elezioni), i senatori hanno mostrato  una sostanziale opposizione al progetto di riforma loro sottoposto. 



E difatti, tornatosi poi ad applicare il voto palese, le votazioni sono proseguite nel senso desiderato dal Governo. Ma il campanello d’allarme è suonato: quando sarà nuovamente possibile il voto segreto, gli oppositori silenziosi avranno altre occasioni per intaccare il disegno di legge costituzionale. E non è escluso che il voto segreto possa dare ulteriori sorprese anche alla Camera. Qui, è vero, la maggioranza dispone di numeri più consistenti, ma è altrettanto palese l’assenza di sintonia tra una buona parte dei parlamentari del partito di maggioranza relativa, e l’attuale dirigenza del partito medesimo. 



Certo, il dilemma sull’opportunità di consentire o meno il voto segreto nel procedimento di revisione della Costituzione rappresenta una questione essenziale per la tutela della libera volontà dei parlamentari e per assicurare piena effettività al divieto di mandato imperativo. Il problema, del resto, non può essere affrontato ricorrendo alle stesse categorie concettuali già utilizzate in passato, perché diversi erano il ruolo dei partiti e i modi di selezione dei parlamentari. Molto è cambiato, soprattutto attraverso la creazione di una consistente cinghia di trasmissione tra partito, candidati ed eletti (indotta dal sistema elettorale) e la forte polarizzazione del quadro partitico cui si è aggiunto il prorompente affermarsi della sovrapposizione tra leadership e premiership. Se non si rafforza adeguatamente la legittimazione democratica dei vertici istituzionali  – e il presidenzialismo può essere una strada – il rischio dell’uso strumentale di procedure predisposte in epoche ben diversa dalla presente, appare sempre più praticabile.



Veniamo adesso il merito della questione. Come noto, a dispetto dell’opinione contraria del Governo, è stato approvato un emendamento che attribuisce alle leggi bicamerali cd. “paritarie” la disciplina delle materie relative all’art. 29 Cost. (famiglia e matrimonio) e all’art. 32, secondo comma, Cost. (trattamenti sanitari obbligatori). Dietro le parole dei vincitori e quelle degli sconfitti si svelano le reali intenzioni di entrambi. I primi affermano che, sarebbe improprio lasciare alla sola volontà della Camera dei deputati la regolamentazione di materie “eticamente sensibili”. I secondi ritengono che, se il Senato sarà composto da consiglieri regionali e sindaci selezionati in via indiretta, sarebbe incongruo attribuire a questa Assemblea una competenza legislativa pariordinata alla Camera in tema di diritti fondamentali.  Per quale ragione dovrebbero legiferare sui diritti di famiglia o sui rapporti matrimoniali coloro i quali sino ad ora ne sono stati esclusi, senza che alcuno se ne lamentasse? Anzi, può ben dirsi che la recente proliferazione di alcuni interventi scoordinati delle Regioni e degli enti locali in tali settori così delicati della vita individuale, ha senz’altro provocato più incertezze che benefici.  

Insomma, è la connotazione elettiva del futuro Senato della Repubblica il vero tema della contesa: averne incrementato le funzioni legislative paritarie con riferimento a questioni di carattere ordinamentale così generale come il matrimonio, la famiglia, i trattamenti sanitari obbligatori, implica di necessità un ruolo rappresentativo ben diverso rispetto a quella assemblea delle istituzioni territoriali che sarebbe nelle intenzioni della maggioranza riformatrice. Del resto, come sostenuto dagli oppositori dell’emendamento in questione, avrebbe poco senso imputare al nuovo Senato una competenza legislativa pariordinata a quella della Camera in ambiti scarsamente riconducibili al ristretto ruolo di Camera delle autonomie che gli si sta acconciando. La riarticolazione del rapporto tra competenze e assetto istituzionale, insomma, è il primo obiettivo di chi intende ristabilire la diretta elezione dei componenti del futuro Senato. 

Ed allora, la prima sconfitta delle tesi sostenute dal Governo e dalla peculiare maggioranza riformatrice che in questa fase lo sostiene, è il sintomo di una slavina imminente o la conseguenza inevitabile di una strategia sinora seguita? Evitare per quanto possibile il voto segreto era un imperativo categorico, ma, già con questo primo voto contrario, appare evidente il senso complessivo della posizione politica del Governo rispetto all’approvazione di questo disegno riformatore. Senza il contemporaneo appoggio della sua stessa maggioranza e di una specifica forza di opposizione – Forza Italia – la riforma proposta dal Governo è destinata inevitabilmente ad inabissarsi. E se ciò, per qualunque ragione, dovesse accadere, sarebbe facile per il Presidente del Consiglio sfidare il Parlamento e chiedere l’appello alle urne. Il Presidente del Consiglio ritiene di avere a sua favore, come sinora è frequentemente avvenuto, entrambi gli esiti che si potrebbero alternativamente verificare. Ma, dapprima, spetterà al Capo dello stato, nella sua posizione di terzietà, decidere il destino non solo di questa legislatura, ma dell’intera classe politica che siede oggi nelle Camere. Se si dovesse andare alle urne, infine, spetterà al popolo giudicare soprattutto chi da ultimo lo ha guidato e condotto al voto.