Nel confermare il mio dissenso sull’impianto di questa pretesa riforma della Costituzione mi assumo la responsabilità di aver usato, a mio giudizio cum fundamentum in re, espressioni come: deriva autoritaria. Che non significa, come ci si è affrettati a dire, che si ritengono i presidenti del consiglio di oggi e di ieri dei despoti, ma che, più giustamente, ci stiamo dando delle regole che riducono i nostri spazi di democrazia e di libertà. Negli sprazzi di dibattito consentito infatti non solo non sono venute meno le perplessità sugli equilibri fondamentali legati ai temi: elezione del Presidente della Repubblica e dei membri della Corte costituzionale e del Csm, ma si sono anzi acuiti, mostrando che la logica che ci guida in questo momento non è lo spirito costituente, ma quello dello struzzo che nasconde il capo sotto la sabbia, sapendo che non ha il coraggio di affrontare i nodi irrisolti. La rimozione del problema posto dal presidente Casini e dal presidente Gasparri con i loro emendamenti sull’elezione del Presidente della Repubblica, che si è preferito non affrontare con pretesti risibili, ne sono testimonianza. Come testimonianza di inestricabile contraddizione è stata la discussione sulle cosiddetta elettività del Senato. Non avendo avuto il coraggio di sciogliere il nodo gordiano delle competenze e delle funzioni, avremo senatori che rappresentano le istituzioni e quindi parlano a nome di Molise e Lombardia, chiamati a fare revisioni costituzionale senza il supporto del suffragio universale. E ancora: il modo sconcertante con cui, in contrasto con gli scopi della prima parte della Costituzione, ci rimangiamo il frutto buono del regionalismo italiano per dare tutto allo Stato. Se infatti tali riforme passeranno, le infrastrutture strategiche e grandi reti di trasporto torneranno alla competenza esclusiva del governo di Roma. Se fosse già stato così Regione Lombardia non avrebbe potuto assumersi quel decisivo ruolo di promotore, di catalizzatore di risorse e di facilitatore della composizione degli interessi dei territori toccati dalla grande arteria che ha potuto e saputo svolgere. Quindi la Bre-Be-Mi sarebbe ancora nel libro dei sogni. Il Senato delle autonomie è insomma il contrario di quello che si vuole far credere e cioè è una cinghia di trasmissione delle decisioni del governo centrale al territorio e dalle Regioni in particolare e non un presidio delle autonomie e della sussidiarietà. Purtroppo ciò non si è potuto discutere ad armi pari, ma il dibattito è appena iniziato e sarà mia premura e della mia comunità politica utilizzare ogni giorno utile per promuovere nel Paese e nei confronti dell’opinione pubblica una coscienza adeguata di quanto accade, perché venga salvaguardata la sostanza del nostro dettato costituzionale. Il formalismo è il naturale antidoto al paternalismo. Ed oggi, che si rischia di promuovere nuove corti invece di ispirare nuove storie, discutere della forma della nostra convivenza civile diventa un imperativo, per evitare che dal bicameralismo perfetto si passi al bicameralismo confuso. Il Parlamento è chiamato in questi mesi a mediare tra principi di democrazia ed esigenze di decisionismo, l’esperienza mi ha insegnato che difendendo i primi non si ostacola il secondo ma lo si rende più vero.