Sarebbe un peccato se il Senato tra tanta smania di riforme perdesse la sua caratteristica di “consesso di anziani”. Pochi ricordano che esiste tra i due rami del parlamento questa differenza: gli articoli 56 e 58 della costituzione assegnano una differente età minima per gli elettori atti ad eleggere i deputati dei due rami (18 e 25 anni); ed esiste anche una differente età minima necessaria per esser eletti al senato e alla camera: 40 e 25 anni rispettivamente. Non è roba da poco, perché rispecchia il termine “senato” per la camera alta, cioè quella fatta di persone più mature, cioè “senes”. Sarebbe un peccato perché sancirebbe la perdita di valore delle età più mature che si è mostrata (negativamente) negli ultimi decenni, in cui essere anziani sembra un disvalore e tutti si devono mascherare da giovani. Ma oggi sembra che tutti possano far tutto, che ci si debba omologare in tutto e per tutto indipendentemente da ogni differenza anche di età; e comunque i giovani oggi hanno ben altro peso sociale e spirito dei giovani del ’46. Nel 1946 bastava avere 40 anni per essere “senis” – si aveva una famiglia, un lavoro, nipoti, rapporti sociali ben affermati – e 25 anni per essere adatto ad eleggere un senis. Oggi queste età fanno sorridere: fino a 40 anni (e oltre) sei comunque un “ragazzo” per il parlare comune e guai a parlare di qualcuno come anziano (senis, appunto). Bastavano 21 anni per eleggere un deputato, età in cui in media si faceva famiglia; e 25 anni per eleggere un senatore, età in cui la famiglia già contava uno o più figli e il soggetto-capofamiglia era già stabilmente inserito nel ciclo produttivo e sociale. Oggi a 21 anni c’è chi non ha finito la scuola e a 25 anni forse qualcuno inizia a pensare lontanamente di sposarsi in un futuro ancora da determinare, tanto che in Italia l’età media per fare il primo figlio è di 31 anni per la donna e ben maggiore per l’uomo.



Perché nella vita c’è un orologio biologico, mentale, ormonale, che non va sottovalutato e che va valorizzato invece che averne paura. Forse – visto il panorama sociologico di disimpegno sociale e di difficoltà a far “partire” i nuclei familiari e i lavori stabili – sarebbe bene che le età per l’accesso al voto e alle cariche politiche si spostassero in avanti conseguentemente verso epoche più mature, ma questo però contribuirebbe a deresponsabilizzare una generazione di ventenni in piena crisi; dato che il criterio per eleggere un senatore era di aver già ben impostato famiglia e lavoro, oggi bisognerebbe spostarlo ai 40, e bisognerebbe spostare avanti anche l’età “della saggezza e dell’esperienza” per essere eletti al senato per ridare peso sociale all’età matura. Ma se non è realistica una riforma delle età nella riforma parlamentare, almeno sarebbe bene sottolineare l’importanza dell’età matura mantenendo tra senatori e deputati l’unica differenza che i Costituenti avevano pensata: il rispetto dell’età sottolineato dalla differente età nell’accesso alle due cariche.



Alle soglie della fine del sistema senatoriale come lo conosciamo, costatiamo la fine di un sistema sociale-sociologico che lascia la società italiana più sola (nuclei familiari striminziti), più incerta (si rimanda la nascita del figlio per una pressione sociale e quasi mai per libera scelta) e privata delle forze più fresche (l’età attiva-decisionale ormai si fissa oltre i 50 anni); le famiglie si fanno tardi, sono soprattutto nuclei di figli unici, spesso dipendenti dai genitori. Non è un quadro confortante dal punto di vista etico e sanitario. Perdere la caratteristica della differenza di età senatoriale sarebbe un peccato; manteniamola, e al tempo stesso lavoriamo per restituire un giusto peso alle età della vita: ai ventenni la possibilità di far famiglia e ai sessantenni quella di dare prudenza e saggezza.

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