Matteo Renzi, passato lo stesso tempo che era stato concesso a Enrico Letta, non ha portato a casa di più, forse meno anzi. Certo, se gli sarà concesso altro tempo potrà fare molto di più, ma le incognite che si addensano sono tante. Tutti gli osservatori si interrogano su una presunta crisi già in atto del renzismo, ovvero la mentalità vincente applicata alla coalizione perdente per antonomasia. Ma la verità è che sono tutti increduli, col giudizio sospeso: non sembra possibile che il Pd abbia partorito una figura così avulsa dal politically correct e così distante dal vissuto e dagli organigrammi dell’ex Pci. Ed essendo chiaro a tutti che guardare indietro è impensabile quanto improponibile, resta la curiosità da parte di tutti di capire se davvero può essere questo il modo per guardare avanti. Curiosità che si trasforma in trepidazione, visto lo stato in cui versa il Paese in piena stagnazione.



Restando nel dubbio tutti, per provare a capire che cosa ci aspetta bisogna capire innanzitutto se un disegno c’è l’ha almeno il protagonista. In altre parole di fronte allo smarrimento per grandi cambiamenti preconizzati di cui non si vede alcun anticipo se non gli spiccioli degli 80 euro (una contrapposizione che sembra richiamare la dicotomia fra rivoluzione marxista e socialismo reale), dobbiamo provare a intercettare la strategia del premier.



Il discorso sfugge di mano perché siamo abituati a porci le domande in un quadro istituzionale e politico dato. Ognuno può affermare che bisognerebbe riformare in profondità l’Italia e l’Europa, andando contro i potentati dell’una e dell’altra, ma una volta prese in mano le redini del Paese la strategia di solito è parametrata ai risultati che si ritiene realisticamente raggiungibili, con l’ausilio del gramsciano ottimismo della volontà.

C’è una preghiera nota ad ogni politico ad alto o basso livello che si cimenta con l’impossibilità di cambiare il mondo. La citò a un congresso democristiano un premier giovanissimo per i canoni dell’epoca, Giovanni Goria, che non a caso durò pochissimo come presidente del Consiglio e che lamentò con l’allora segretario della Dc Ciriaco De Mita di non esser stato nemmeno menzionato. «God, grant me the serenity to accept the things I cannot change, courage to change the things I can, and wisdom to know the difference». «Dio, concedimi la serenità di accettare le cose che non posso cambiare, il coraggio di cambiare le cose che posso, e la saggezza per conoscerne la differenza». Attribuita al teologo protestante americano Reinhold Niebuhr, si chiama “preghiera della serenità”, e certamente la conosce uno sereno come Enrico Letta invitato a rimanere tale dal successore anche poco prima di essere velocemente defenestrato, un po’ come Goria.



La domanda allora è: la conosce Matteo Renzi? Possibile che non si renda conto il premier che per far passare il Jobs act un minimo di collaborazione ci vuole dai sindacati e il modo peggiore è andare ad attaccarli sui permessi sindacali, alla stregua di fannulloni? Lo stesso dicasi su un altro tabù come la riforma della giustizia, altro ostacolo insormontabile per decenni e decenni che Renzi si ripropone di superare. Possibile, anche qui, che il premier non si renda conto che per riuscire lui dove tutti gli altri hanno fallito un dialogo con i magistrati vada stabilito e il modo peggiore sia dare anche a loro dei fannulloni con la vicenda delle ferie da tagliare? Il discorso si potrebbe allargare all’Europa che ci ricorda le riforme e i tagli solo annunciati, nonché il livello bassissimo di utilizzo dei fondi, ma a Renzi non è mancato il coraggio di attaccare i santuari inviolabili della Ue che lui stesso presiede, chiedendo conto, ad esempio, dei 300 miliardi in investimenti promessi dal neo-presidente della Commissione Ue Jean-Claude Juncker. A Bari Renzi non ha dato alcun segnale di arretramento definendosi «allenatore di una squadra di giocatori forti che però non si parlano», rilanciando: «Ma l’allenatore ha la testa dura e, soprattutto, sugli spalti c’è gente che tifa perché quella squadra vinca».

Qui forse, allora, troviamo la risposta. Il premier si rende conto eccome delle difficoltà politiche o istituzionali che ha di fronte ma non ci sta, evidentemente, a fare la fine di Letta o Goria. Cosicché al posto di indietreggiare, avanza, al posto di mediare, sfida. Perché, da uomo che prima che a Palazzo Chigi sa governare sui social network, sa che queste battaglie lo rafforzano nella pubblica opinione. E sa che queste invettive a supporto delle sue proposte politiche tanto sono considerate lesa maestà dai destinatari quanto sono comprese e sostenute dalla gente comune.

Resta solo un dubbio, irrisolto. Questo innalzamento della posta in gioco per non finire logorato come Letta e Goria ha, alla fine, l’obiettivo di cambiare davvero le cose, o di andare al più presto al voto al grido di: «Io volevo cambiare ma questi signori me lo hanno impedito»? Lo scopriremo solo vivendo, ma un’idea ce la siamo fatta anche noi.