Lo stallo nell’elezione parlamentare di due componenti della Corte costituzionale e degli ultimi due del Csm non deve sollevare inutili allarmismi, ma certo i “gravi interrogativi” rilevati dal capo dello Stato nella nota. Ma quali sono questi interrogativi? E, innanzitutto, chi deve porseli? Il capo dello Stato ha svolto un ragionamento piuttosto articolato, che nei giornali non sembra essere stato ben spiegato. Il presidente ha ricordato che “varie forze politiche” nel procedimento di revisione costituzionale hanno chiesto l’innalzamento del quorum per l’elezione dei componenti degli organi di garanzia, tenuto conto del prospettato superamento del bicameralismo paritario e della legge elettorale fortemente maggioritaria approvata in prima lettura dalla Camera. Una richiesta, a ben riflettere, niente affatto irragionevole. 



Ma, dice il presidente, se prevale un atteggiamento fatto di “immotivate preclusioni” e di “settaria pretesa di considerare idonei soli i candidati della propria parte”, allora il meccanismo si paralizza e si finisce per “mettere in discussione” lo stesso istituto di garanzia. Insomma, non si può da un lato chiedere di innalzare i quorum elettivi, e poi utilizzare in modo strumentale e “settario” quelli già esistenti. Sotto accusa sono posti quei parlamentari che, per raggiungere i propri esclusivi interessi, non rispettano un certo accordo sinora raggiunto tra alcune delle forze politiche. Tuttavia, quasi per automatica traslazione, i mezzi di comunicazione hanno fatto credere all’opinione pubblica che sotto accusa debba essere posto tutto il Parlamento, incapace di fare il proprio compito. 



La democrazia costituzionale, però, è altra cosa. La democrazia si fonda sulla possibilità di consentire a ogni forza politica di partecipare alle decisioni pubbliche fondamentali, come, ad esempio, quelle che consistono nell’elezione degli organi di garanzia. Nei sistemi realmente democratici ove esiste un giudice costituzionale eletto anche dagli organi parlamentari, il quorum elettivo non coincide con la maggioranza semplice per ovvi motivi che tutti facilmente comprendono. Non si può lasciare alla maggioranza del momento – quella che generalmente sostiene il governo – la selezione degli organi che devono adottare decisioni a garanzia di tutte le forze politiche e dell’intero ordinamento costituzionale. 



Se non si raggiungono i quorum necessari dopo numerosi tentativi, e per di più quando contemporaneamente si deve procedere all’elezione di ben dieci persone tra Corte costituzionale e Csm – come è avvenuto in questo frangente -, allora l’errore deve collocarsi a monte dei comportamenti dei votanti. Ossia nelle scelte compiute da chi ha la responsabilità di proporre un quadro complessivo di eleggibili che tenga conto di quel principio di collegialità democratica che per gli organi di garanzia ispira la logica stessa del quorum elettivo superiore alla maggioranza semplice. 

Non si tratta, ovviamente, di mettere in discussione le qualità e le competenze delle singole persone individuate, ma di riconsiderare il metodo che ha condotto a quelle scelte. E tanto più si è ridotto il numero dei componenti da eleggere, tanto più è diventato difficile convincere i più riottosi ad accettare l’accordo assunto all’inizio della procedura. 

La resa dei riottosi, poi, è diventata quasi impossibile dopo il discorso pronunciato alle Camere dal presidente del Consiglio, che ha legato l’impegno delle riforme alla sopravvivenza di questa legislatura. Allo stato delle cose − in questa legislatura del tutto atipica nell’esperienza costituzionale − la sua forza consiste nella debolezza altrui: dargli ragione, accettando il patto stretto sui giudici costituzionali con il principale partito di opposizione, vorrebbe dire rafforzarlo ancor di più. E questo è chiaro soprattutto ai più o meno nascosti oppositori interni alla sua stessa maggioranza. 

La stessa logica politica vuole, allora, che si torni alla Costituzione.  La sospensione nel defatigante susseguirsi delle votazioni, allora, non è affatto un sintomo della sconfitta del Parlamento. Al contrario, è un buon segno per la vitalità stessa delle nostre istituzioni democratiche.