La minoranza del Pd ha presentato sette emendamenti alla legge delega sul lavoro. A firmarli sono una trentina di senatori del Pd, che intendono cambiare il testo della riforma soprattutto per quanto riguarda l’articolo 18 e gli ammortizzatori. Tutti e sette gli emendamenti sono relativi all’articolo 4 del Jobs Act, quello cioè che introduce il contratto a tutele crescenti e mette ordine nella selva delle forme contrattuali. Ne abbiamo parlato con Gianfranco Pasquino, professore di Scienza politica all’Università di Bologna, per 12 anni senatore e socio dell’Accademia dei Lincei.
Professore, come vede il conflitto in atto tra Renzi e i sindacati sull’articolo 18?
I sindacati in realtà non hanno maturato una posizione comune, e quindi preferiscono dire no, in quanto il no può essere generale, il sì invece dovrebbe essere argomentato. Ho l’impressione che la Cgil, premuta dalla Fiom, sia costretta a dire no, mentre la Cisl, anche in linea con la sua tradizione di spingere la contrattazione a livelli locali, può dire sì da molti punti di vista.
Una parte del partito sta contestando il segretario Renzi. Ciò dove porterà?
La contestazione in generale non porta da nessuna parte. Con degli emendamenti specifici possono ritoccare alcuni aspetti del decreto, e a condizione che siano compatti potranno esercitare una qualche influenza.
La minoranza del Pd vede nell’articolo 18 un’occasione storica per rifarsi?
No, non basta quello. Certamente sta cercando di dimostrare la sua esistenza, adesso vedremo se ha anche una qualche compattezza, ma dovrebbe cercare di mettere in campo una capacità propositiva. Deve cioè riuscire a fare meglio del governo per quanto riguarda l’occupazione che c’è e a quella che dovrebbe essere creata.
In che modo?
La sinistra del Pd dovrebbe trovare una formula per fare sì che l’articolo 18 sia riformato, accettando quindi che la riforma sia necessaria, producendo però effettivamente nuovi posti di lavoro. Dovrebbe cioè riuscire ad andare oltre quello che dice il governo, e fino a questo momento quest’“oltre” non l’ho visto.
Come si spiega il collasso della sinistra del Pd? E’ il fascino personale di Renzi o i tempi sono cambiati?
Quando Renzi diventa segretario, la minoranza è ridotta a ben poca cosa, perché Cuperlo raggiunge il 18%, quindi al massimo un quinto di quelli che votano per Renzi. Nello stesso tempo c’è anche un problema generazionale, perché Renzi ha 40 anni, mentre i leader della minoranza Pd sono tutti sopra i 50 anni e quindi sono sulla via dell’auto-rottamazione. Capisco che Fassina e Orfini sono più giovani, anche se quest’ultimo va a fare il presidente dell’assemblea e quindi ha già accettato di essere incluso nell’establishment renziano. Vedo scarse capacità innovative che dipendono anche dal fatto che non c’è una corrente di giovani di sinistra.
Perché Renzi, pur avendo il totale controllo del partito, non riesce a fare altrettanto con i gruppi parlamentari del Pd?
C’è un dato strutturale, che deriva dal fatto che i parlamentari in realtà sono stati scelti da Bersani, in quanto ne riflettevano le opinioni e le linee guida. C’è poi un dato congiunturale, e cioè che Renzi in realtà non si confronta con i gruppi parlamentari. Va a dare degli ordini, ma nessuno dei deputati e senatori pensa di essere semplicemente un suddito. Se Renzi mutasse il suo comportamento e i suoi termini lessicali, per esempio smettendo di dire che “serve un cambiamento violento”, potrebbe trovare un modo nuovo di rapportarsi ai parlamentari del Pd che potrebbe essere migliore per tutti.
(Pietro Vernizzi)