Ha travolto in pochi mesi ogni linea di resistenza della vecchia politica. Ma adesso deve dimostrare che oltre il fumo c’è anche l’arrosto. Matteo Renzi è arrivato a un tornante decisivo della sua esperienza di governo. C’è molto più della battaglia sull’articolo 18 in ballo fra la direzione del Pd le conseguenti decisioni parlamentari sulla riforma del mercato del lavoro. In questa strettoia il premier si gioca l’affermazione stessa del suo nuovo modo di fare politica.



Ha scelto con cura il terreno della sua battaglia: un tema simbolo della lotta senza quartiere fra il vecchio e il nuovo che lui vuole incarnare, ma tutto sommato marginale rispetto al ben più ampio problema di rilanciare un’economia sempre più impantanata. Nella sua intervista a Repubblica spiega con estrema chiarezza che i reintegri ex art. 18 in Italia sono stati circa tremila, cioè lo 0,0003% dell’intera forza lavoro. Secondo i dati della Cgia di Mestre questo istituto si applica a circa il 57% dei lavoratori assunti a tempo indeterminato, ma appena al 2,5% delle imprese italiane, quelle 105mila che superano i 15 dipendenti. 



In una partita doppia ragioneristica fra costi e benefici il guadagno in termini di consenso – deve avere meditato Renzi – supera di gran lunga la possibile perdita presso mondi che difficilmente smetteranno di votare Pd, come la Cgil e dintorni. In questa contesa il sindacato, anzi, sta commettendo l’errore comunicativo di passare per difensore di chi garantito lo è già. Esattamente quello che serve al presidente del Consiglio per vincere.

Nei confronti con i suoi fedelissimi a Palazzo Chigi il premier/segretario si mostra molto sicuro che non ci sarà alcuna scissione dentro il suo partito. Si dice certo che alla fine la minoranza interna non potrà che adeguarsi. In fondo, quello scenario viene evocato esclusivamente da Civati, e invece escluso dagli esponenti più autorevoli, come Bersani. Non sarà un passaggio indolore, e forse qualche caso di coscienza potrà persino verificarsi, ma alla fine la quasi totalità del partito finirà per allinearsi. 



Come un mantra i renziani ripetono il ritornello del 41% alle europee, come a dire che al di fuori del Pd non c’è futuro alcuno, visto anche che a sinistra del partito lo scenario appare un campo bombardato, specie dopo la scissione di Gennaro Migliore da Sel. Non c’è alcun polo intorno a cui coagulare il dissenso al renzismo, e  i Cuperlo, o i Fassina lo sanno benissimo. Neppure la Cgil sembra in grado di frapporsi all’avanzare del premier. La Camusso non è Cofferati, e in dodici anni dai tre milioni di persone trascinate al Circo Massimo di acqua sotto i ponti ne è passata tantissima. Quand’anche il maggiore sindacato italiano proclamasse davvero lo sciopero generale, questo difficilmente avrebbe l’effetto di bloccare l’iter parlamentare, come invece fu contro Berlusconi e Maroni ministro del Lavoro.

Un errore proprio Renzi sa di non potere permettersi: tentennare, esitare, indietreggiare. Se dovesse cedere a questa tentazione, davvero rischierebbe di essere travolto: le rive del suo fiume si stanno affollando di gente che si siede aspettandone il cadavere.

Al solito Scalfari si sono aggiunti questa settimana il segretario della Cei, un ex amico come Diego Della Valle e il direttore del Corriere Ferruccio de Bortoli che ha sparato alzo zero su Palazzo Chigi una bordata di insolita durezza. Renzi stavolta ha accusato il colpo e dovuto giustificarsi, almeno su un punto delicato. Ha dovuto assicurare di non essere massone, né lui né il padre. 

Evidentemente questa pressione si sente a Palazzo Chigi e si va a sommare a quella delle istituzioni europee, da cui scaturiscono voci incontrollate di piani, veri o presunti, per sostituire Renzi con il governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, cui farebbe da corollario l’ascesa di Mario Draghi al Quirinale nel giro di qualche mese.

Da qui la ventilata minaccia di ricorrere alle elezioni anticipate per ottenere un nuovo plebiscito prima che il vento del consenso popolare nelle vele cominci ad affievolirsi. Una minaccia che si legge chiara nel ricordare che se Berlusconi fosse determinante nell’approvazione della riforma del lavoro, si aprirebbe un grave problema politico. 

Come una lepre perennemente in fuga, Renzi allora ha deciso di alzare la posta ancora una volta. Accelerare per non essere fatto prigioniero della palude. Nel salotto amico e comodo di Fabio Fazio ha disegnato obiettivi ancora più ambiziosi, come l’abolizioni delle forme contrattuali che hanno generato il precariato (co.co.pro. e similari), o il trasferimento del Tfr nella busta paga dei lavoratori, con il contorno di jus soli per quanto riguarda l’attribuzione della cittadinanza, e di civil partnership in preparazione sul versante dei diritti civili.

Non sarà facile però dimostrare a uno come Scalfari che finalmente c’è qualcosa che bolle in pentola, oltre che l’acqua. Ma a tutti coloro che tentano di condizionarlo la sfida è lanciata dicendo che non sarà possibile telecomandarlo come una marionetta. Bisognerà vedere se basterà anche a tenere l’opinione pubblica dalla sua parte, che chiede che agli annunci seguano finalmente i fatti.