La regola del pareggio di bilancio andava inserita in Costituzione? È necessario, per venire fuori dalla crisi, rimuoverla dalla Carta? 

La risposta è negativa. È stato un atto ideologico il suo inserimento in Costituzione ed è un atto altrettanto ideologico il tentativo di alcuni parlamentari del Pd, ora, di toglierla dal testo costituzionale.

Intendiamoci, non si tratta di essere neutrali o indifferenti rispetto a quello che fece il Governo Monti o a quello che cercano di fare Fassina, Lauricella e D’Attorre. Ma non è questo il bandolo della matassa.

Intanto, anche con l’abrogazione delle disposizioni costituzionali sul pareggio di bilancio, la regola avrebbe vigore nel nostro ordinamento e sarebbe cogente alla stessa maniera sulla base degli obblighi che l’Italia ha assunto in forza della sottoscrizione del Trattato sulla Stabilità, sul Coordinamento e sulla Governance nell‘Unione economica e monetaria, più noto come Fiscal compact. 

Questo trattato non obbligava, però, ad inserire la “regola aurea” della finanza pubblica in Costituzione; e la costituzionalizzazione di una norma a scopo dimostrativo non ha certamente fatto bene alla Costituzione.

Il Fiscal compact fa parte del nostro ordinamento grazie ad una legge ordinaria (23 luglio 2012, n. 114), come del resto è accaduto per tutti i trattati europei sottoscritti dall’Italia sin dall’inizio. Questi Trattati (Ceca, Cee, Euratom, eccetera) in Italia hanno sempre avuto esecuzione con legge ordinaria. Di fatto, però, la forza dei trattati europei, sin dal primo sottoscritto nel 1951, è stata superiore alla legge e in grado di derogare alla stessa Costituzione. 

Non era necessario inserire la clausola del pareggio di bilancio in Costituzione, ma altrettanto inutile perciò potrebbe risultare rimuoverla, nel senso che il problema non è il “contenitore” interno della clausola (Costituzione o legge), ma la clausola in sé. 

L’Italia ha ormai una lunga tradizione nel negoziare regole a livello europee che la danneggiano. Questo accade per impreparazione politica e per imperizia tecnica. Com’è potuto venire in mente ai governanti del tempo (2012), con la condizione della finanza pubblica dell’Italia, di sottoscrivere un trattato che prevedeva un pareggio del bilancio pubblico, “con il limite inferiore di un disavanzo strutturale dello 0,5% del prodotto interno lordo ai prezzi di mercato”? Come è stato possibile sottoscrivere una regola sulla riduzione del debito pubblico, nel caso in cui questo ecceda la soglia del 60% del Pil, “a un ritmo medio di un ventesimo all’anno”?

Il problema del rispetto del Fiscal compact, peraltro, non è risolvibile aumentando, anche in modo occulto, il prelievo fiscale dalle tasche dei cittadini e neppure con continui tagli della spesa pubblica. Entrambe queste due misure fanno peggiorare la situazione economica interna, come di fatto è accaduto e continua ad accadere.

La flessibilità invocata dal presidente del Consiglio Renzi a livello europeo c’è già; basta andare oltre il fatidico 3% di deficit, come ha fatto la Francia e, in passato, anche la Germania.

Sforare il 3% non è una bella cosa, ma non è neppure la fine del mondo. Lo sforamento dovrebbe servire a un allentamento immediato della pressione fiscale. Il problema è che, per fare ripartire il Paese, non basta abbassare le tasse. Lo sforamento, infatti, comporta che uno Stato entra in un regime particolare il quale richiede delle serie riforme strutturali che, per iniziare potrebbero essere quella del mercato del lavoro, per favorire l’occupazione di giovani e meno giovani, che stanno emigrando sempre più; e quella della pubblica amministrazione i cui servizi non vanno ridotti con i tagli della spesa, ma semmai riqualificati.

Per fare ciò, il Governo dovrebbe essere forte e autorevole, consapevole e capace e in grado di “operare in silenzio”. L’augurio è che il Governo Renzi dimostri di possedere tutte queste virtù.