Dice un vecchio proverbio che tutti i nodi vengono al pettine. Con riforme, Italicum e Quirinale sta succedendo esattamente questo. Tutto si tiene, tutto finirà per incrociarsi e influenzarsi.
Per Matteo Renzi un tornante decisivo, vietato sbagliare. Il suo primo obiettivo politico è portare a casa il prima possibile il via libera parlamentare alla legge elettorale e alla revisione della Costituzione. In entrambi i casi si tratterà dei testi destinati a diventare definitivi (l’Italicum avrà bisogno di un nuovo passaggio alla Camera, le riforme altri tre voti).
A Palazzo Chigi ancora non è tramontata la speranza che Napolitano conceda una brevissima proroga, quella decina di giorni che consentirebbero di portare a casa il bottino pieno. Sul calendario del premier è stata cerchiata una data, venerdì 23 gennaio, quella in cui viene ritenuto possibile arrivare al sì del Senato alla nuova legge elettorale e, forse, anche della Camera sulla riforma costituzionale.
In mezzo però c’è un autentico campo minato, anche perché man mano che si avvicina il momento della scelta del prossimo capo dello Stato cresce la diffidenza fra i partiti, e soprattutto al loro interno. In più, Giorgio Napolitano non nasconde di considerare la sua missione compiuta e conclusa. Attenderà martedì 13 gennaio il discorso con cui Renzi chiuderà davanti all’europarlamento il semestre italiano, e non gli farà ombra. Dalla mattina successiva, però, ogni momento sarà buono per le dimissioni. La data del 14 gennaio viene segnalata dalle voci di corridoio come la più probabile.
A quel punto Piero Grasso assumerà la supplenza e Laura Boldrini convocherà il parlamento in seduta comune con i rappresentanti delle regioni. Data possibile il 29 gennaio. In attesa di quell’appuntamento l’attività parlamentare faticherà a proseguire, anche se non si tratta di una crisi di governo, che paralizza per prassi le Camere. Con buona pace dei proclami di Renzi in senso contrario, le partite finiranno per saldarsi, e ben difficilmente la tabella di marcia a tappe forzate definita da Palazzo Chigi potrà essere rispettata.
Basterà un nonnulla, un granellino nell’ingranaggio, per frenarlo, oppure per bloccarlo del tutto. In tanti potrebbero gettarlo: la minoranza dem, la fronda forzista di obbedienza fittiana, lo stesso Berlusconi, qualora si vedesse tagliato fuori. Persino i centristi della neonata Area Popolare avvertono Renzi di non dare troppe cose per scontate.
I nodi da sciogliere non mancano, ed è impossibile accontentare tutti. La partita degli emendamenti sui due provvedimenti che marciano in parallelo si gioca in queste ore ed è delicatissima. Un esempio: sulla legge elettorale è stato depositato una proposta di modifica a prima firma Miguel Gotor (una delle teste pensanti della minoranza Pd) per cancellare i capilista bloccati. Le firme in calce sono ben 37, la materia è scivolosa e su questo terreno il patto del Nazareno potrebbe vacillare.
Se ci si unisce il no (anche senza barricate) di Forza Italia al premio di maggioranza alla lista, e la questione della clausola di salvaguardia si ottiene una miscela potenzialmente esplosiva. In qualsiasi momento i sabotatori del dialogo con Berlusconi potrebbero coalizzarsi da punti diversi dell’aula, e approvare qualcosa di particolarmente indigesto per i due contraenti del patto del Nazareno.
Sinora fra Arcore e Palazzo Chigi il filo del dialogo sembra tenere, e questo consente a Renzi di mantenere le carte coperte. Unica indicazione quella metodologica. L’elezione è prevista al quarto scrutinio, quando la maggioranza necessaria scende da 672 a 505 voti. Una misura prudenziale per evitare che nel segreto dell’urna si ripresentino frotte di franchi tiratori, come nell’aprile di due anni fa. Allo stesso tempo gli consentirà di tenere tutti sulla corda. Alla minoranza democratica Renzi farà capire che eleggerà il presidente con Berlusconi e i centristi, anche se dovesse avere 80/100 defezioni fra i suoi 450 grandi elettori. E agli azzurri renderà evidente che la maggioranza di governo potrebbe ricompattarsi su un nome sgradito ai berlusconiani.
Non sapendo a chi rivolgersi (o non volendo renderlo troppo evidente), Renzi tiene accuratamente coperti i nomi dei candidati. Un minimo di ricucitura interna l’ha però messa in cantiere, e ha cominciato da Pier Luigi Bersani, il suo avversario più temibile, ma anche il più ragionevole.
La direzione in cui i renziani si stanno muovendo è quella di un nome riconoscibilmente democratico, anche se di certo non sgradito a Berlusconi. Imperativo, ridurre al minimo le ragioni di dissenso fra le fila dei propri grandi elettori. Non certo Prodi, insomma, e neppure Bersani. Ma nomi meno divisivi, come Veltroni, Fassino, Finocchiaro, o altri rimasti ancora nell’ombra.
Il puzzle sembra ancora lontano dall’essere completato, ma Renzi non ha fretta, non vuole bruciare soluzioni e candidature. Del resto, per vincere la più delicata sfida della sua carriera politica è disposto a tutto. Riforme e legge elettorale possono anche attendere qualche settimana in più.