Con l’atto formale delle dimissioni, Giorgio Napolitano ha concluso il suo mandato di presidente della Repubblica e ha dato l’avvio formale al processo che porterà all’elezione del successore. Trattative e dietrologie sono il pane quotidiano che ci viene fornito dai media già da qualche tempo e che è destinato a aumentare nei prossimi giorni. Il rincorrersi di notizie e di dichiarazioni, tuttavia, rischia di non farci riflettere su un futuro immediato che — invece — meriterebbe di suscitare in tutti un vivo, profondo interesse.
Per cominciare, può essere utile meditare sulla posizione manifestata, almeno inizialmente, dal presidente del consiglio, Matteo Renzi, secondo cui la scelta prossimo presidente della Repubblica dovrebbe guardare all’esempio del presidente federale tedesco, di cui — è abitudine sottolineare — non tutti ricordano il cognome; un signore venuto dalle fila non della politica ma della società civile, individuato, in prima battuta, non dai parlamentari che lo dovranno eleggere (e quindi da partiti di massa) ma, di conseguenza, dentro stanze cui solo pochissimi hanno accesso.
Che senso può avere questa affermazione, in sé difficile da decifrare visto che poi è il parlamento in seduta comune, rappresentante del popolo, a esprimere il suo voto e ad esprimerlo secondo maggioranze assai larghe?
Può darsi che Renzi, esperto nel comunicare, stesse dicendo qualcosa che riguarda solo marginalmente il futuro. Lo sguardo del capo del governo era — credo — soprattutto rivolto al passato, alla lunga presidenza di Napolitano ma anche all’evoluzione della figura istituzionale del presidente della Repubblica la quale, a partire dalla fine degli anni Ottanta, ha progressivamente guadagnato spazio nell’ambito dei processi dalla politica fino a diventare un elemento determinante della forma di governo, cioè della triade istituzionale (parlamento, governo, presidente) entro cui si giocano le scelte di fondo e quelle concrete relative al Paese nel suo complesso.
Guardando a come ha operato questa triade nel passato anche recente, chi potrebbe oggi affermare che il potere presidenziale è un “potere neutro”?
Esso si presenta piuttosto come un garante, un arbitro che, tuttavia, proprio per esercitare appieno la sua funzione arbitrale entra in scena, comunica, esercita poteri, prende decisioni, si coinvolge con autorevolezza indicando percorsi, sollecitando iniziative, rammentando valori e doveri agli altri soggetti dell’arena politica e istituzionale; in tal modo egli acquisisce consensi, stima e anche affetto, diventa un simbolo: insomma “rappresenta” in senso forte quella unità della nazione che altri — soprattutto i partiti politici (e quindi parlamento e governo) — spesso contribuiscono a disgregare.
Che giudizio si può dare di questo fenomeno, che la dottrina interpreta in vario modo ma, essenzialmente, prendendo atto che le cose sono profondamente cambiate rispetto al disegno costituzionale sulla spinta della prassi, delle consuetudini costituzionali e dei cambiamenti radicali subiti dal contesto internazionale e dal panorama politico-partitico?
Esso non può e, occorre aggiungere, non deve essere stigmatizzato, quasi che la costituzione vivente non possa allontanarsi dalla costituzione formale, che pure resta sullo sfondo come riferimento ineliminabile. Renzi non lo fa né lo potrebbe fare. Egli può solo pallidamente suggerire la necessità di un cambiamento, forse di una correzione tutto sommato modesta al percorso vittorioso di una presidenza che con Napolitano ha raggiunto il suo apice, non solo tra le istituzioni nazionali ma anche nel cuore delle persone, complice il disfacimento del sistema dei partiti e le eccezionali difficoltà economico-finanziarie del Paese.
Senza enfasi, la sua descrizione del nuovo presidente come un anonimo personaggio sembra esprimere un’aspirazione — condivisa — a che si ritorni all’ordinario, ad un mondo conosciuto, alla fine dell’eccezione e dell’eccezionalità. Se la crisi finirà, come va promettendo il ministro dell’Economia, e il Paese tornerà a lavorare, alle sue ordinarie occupazioni, forse non ci sarà bisogno di un presidente come Giorgio Napolitano. Forse basterà un presidente qualunque, un uomo qualunque, di cui si potrà persino dimenticare il cognome. In un certo senso, questo è quanto tutti ci auguriamo, a condizione — però — che tutte le altre istituzioni (a partire dal parlamento e dai partiti che lo compongono) ritornino all’ordinario. Senza che tutti ritornino alle loro ordinarie occupazioni (a fare le leggi, ad esempio, e poi a darvi attuazione, a governare con competenza e lungimiranza e a esercitare la giustizia) vano sarà pensare di normalizzarne uno solo, anche se questo è solola più alta carica dello Stato.